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  • Martedì 28 giugno 2016

I problemi del reddito di cittadinanza

Se ne sta riparlando in diverse parti del mondo: un giornalista del Washington Post spiega perché negli Stati Uniti probabilmente non sarebbe una buona idea

di Charles Lane – The Washington Post

Con un larghissimo margine di tre elettori a uno, i cittadini svizzeri hanno respinto in un referendum la proposta di introdurre un reddito di cittadinanza mensile per tutti i residenti, indipendentemente dal fatto che avessero un lavoro o meno. In altri paesi, tuttavia, i sostenitori dell’idea non sembrano voler accettare il “no” della Svizzera. Il reddito minimo di cittadinanza – proposto frequentemente in passato – oggi è tornato di attualità per i timori che i robot e l’intelligenza artificiale siano una minaccia per intere categorie professionali, soprattutto per i lavoratori meno qualificati, e che in futuro le uniche occupazioni possibili saranno lavoretti precari, con povertà di massa e ineguaglianza che incombono sullo sfondo.

La tradizionale ricetta degli economisti prevede maggiori investimenti in istruzione e formazione professionale, in modo da fornire alle persone gli strumenti necessari per ottenere lavori meglio pagati. Secondo il movimento a favore del reddito di cittadinanza, invece, sarebbe più intelligente e semplice separare la sussistenza dal lavoro. Negli Stati Uniti l’introduzione del reddito di cittadinanza è sostenuta da persone di tutte le posizioni ideologiche: Andy Stern – l’ex presidente ultra-progressista del sindacato americano Service Employees International Union – cita argomentazioni di giustizia sociale, come suggerisce il titolo del suo nuovo libro Raising the Floor (“alzare il livello minimo”), e Charles Murray, politologo americano conservatore e sostenitore di un minor intervento del governo, sostiene che il reddito di cittadinanza renderebbe più efficiente lo stato sociale e definirebbe in maniera chiara gli obblighi minimi, e massimi, della società verso i meno fortunati. La città di Oakland, in California, e la Finlandia potrebbero avviare presto programmi sperimentali sul reddito di cittadinanza.

Ma anche se il reddito di cittadinanza dovesse trovare il necessario sostegno politico e finanziario, il programma dovrebbe comunque affrontare problemi immensi dal punto di visto pratico. Qualsiasi forma di reddito di cittadinanza – Murray, per esempio, propone diecimila dollari annui più altri tremila per l’assicurazione sanitaria, da eliminare gradualmente per i redditi da lavoro superiori a 30mila dollari – sarebbe insufficiente in alcune zone ed eccessiva in altre. A Porto Rico, per esempio, 10mila dollari sono più del reddito medio annuo della popolazione, mentre a Manhattan sembra essere il costo di un panino. Poi c’è la questione di cosa fare con gli immigrati. La pratica più coerente con gli obiettivi del reddito di cittadinanza – che prevede l’estensione anche ai nuovi arrivati negli Stati Uniti, in modo che non formino una sottoclasse – stimolerebbe l’immigrazione, irritando i paesi di origine dei migranti e i contribuenti americani. La soluzione potrebbe essere rendere obbligatorio un periodo di attesa, ma trovarne uno che sembri equo a tutti non sarebbe facile.

Per quanto riguarda il problema dei lavori diventati obsoleti, nessuno ne conosce la portata. Nel 2013, Carl Frey e Michael Osborne della Oxford University scrissero che il 47 per cento dei posti di lavoro negli Stati Uniti erano «a rischio» per i prossimi vent’anni, mentre secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) sarebbero il 9 per cento. Tutte le stime, tuttavia, dovrebbero essere analizzate alla luce del previsioni fatte in passato e mai avveratesi sulla disoccupazione di massa causata dallo sviluppo tecnologico. È il caso di adottare una nuova politica di welfare sulla base di supposizioni simili? Probabilmente no, se si tiene in considerazione l’effetto imponderabile ma presumibilmente deterrente che il reddito di cittadinanza avrebbe sull’incentivo a cercarsi un lavoro, soprattutto in posizioni che non richiedono esperienza e offrono i livelli retributivi più bassi (e in ogni caso: il salario minimo è ancora necessario e giustificato, in un mondo dove esiste il reddito di cittadinanza?). Gli studi citati da Stern mostrano come durante i periodi di applicazione dei progetti pilota per il reddito di cittadinanza in una piccola città rurale del Canada, quarant’anni fa e, più di recente, in un piccolo paese in Namibia, non ci siano state riduzioni significative dell’occupazione. Questi esperimenti (e i nuovi che potrebbero essere avviati a Oakland e in Finlandia) non mostrano però le ripercussioni negative che derivano dal dire a ogni americano, a partire dall’infanzia, che riceverà un assegno mensile una volta raggiunta l’età adulta.

Anche quando i robot avranno preso il nostro posto, ci sarà bisogno che qualcuno lavori, e questo significa che la società deve incoraggiare le persone a provarci, anche se le ricompense finali non sono certe. Murray ammette che il suo piano disincentiverebbe il lavoro, ma pensa che non lo farebbe più delle politiche attuali e vede un vantaggio: i cittadini sicuri di avere un reddito in molti casi si indirizzerebbero verso lavori da volontari, dando nuovo vigore alla cultura civica. Dal punto di vista di Stern, poi, il reddito di cittadinanza consentirebbe la transizione, oggi agli inizi, verso un lavoro «dettato in gran parte dalla motivazione, dalla creatività e dalla capacità di inventarsi una professione dal nulla». Tutto questo mi ricorda il sogno a occhi aperti del comunismo di Karl Marx, in cui « la società regola la produzione generale e in tal modo mi rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».

La realtà però ci dice che gli uomini americani dai 25 ai 54 anni che non fanno più parte della popolazione attiva guardano la televisione per una media di 335 minuti al giorno, stando a un rapporto dei consulenti economici della Casa Bianca. Per garantire diecimila dollari all’anno in aggiunta agli ammortizzatori sociali esistenti – il programma sanitario federale, il credito d’imposta sui redditi da lavoro, la previdenza sociale, e tutti gli altri – il governo dovrebbe aumentare le tasse o tagliare ulteriormente la spesa di tremila miliardi l’anno, secondo Robert Greenstein del centro studi Center on Budget and Policy Priorities. Se invece il reddito di cittadinanza sostituisse gli ammortizzatori sociali attualmente disponibili (come propone Murray), sposterebbe ampie risorse togliendole ai poveri, in quanto i sussidi legati alla verifica delle condizioni economiche che oggi sono rivolti alle persone con un reddito basso sarebbero distribuiti a persone con mezzi superiori. Non è chiaro come verrebbe presentato un piano come quello di Murray alle persone che hanno versato contributi nel programma di previdenza sociale aspettandosi, nella maggior parte dei casi, di ottenere molto più di 10mila dollari all’anno una volta raggiunta la pensione.

La proposta di introdurre un reddito di cittadinanza fa riflettere, soprattutto sul fatto che possiamo, e dovremmo, razionalizzare il rapporto che le politiche sociali americane hanno creato tra occupazione e sicurezza economica, soprattutto scindendo l’assicurazione sanitaria dal lavoro, come in parte è riuscita a fare Obamacare [la riforma sanitaria di Obama]. Eliminare totalmente questo rapporto però probabilmente non è necessario, ed è sicuramente rischioso.

© 2016 – The Washington Post