• Mondo
  • Venerdì 1 aprile 2016

Un hacker sostiene di aver manipolato le ultime elezioni in Messico

E molte altre negli ultimi anni, in mezzo Sudamerica, usando soprattutto i social network: lo racconta un articolo lungo, documentato e inquietante

Enrique Peña Nieto (AP Photo/Marco Ugarte)
Enrique Peña Nieto (AP Photo/Marco Ugarte)

Bloomberg ha pubblicato un lungo articolo su Andrés Sepúlveda, hacker colombiano di 31 anni che attualmente sta scontando in carcere una pena di 10 anni. Sepúlveda ha detto di aver contribuito a manipolare le elezioni in vari paesi del Sudamerica negli ultimi otto anni, attraverso il furto di dati, l’installazione di software malevoli e la manipolazione dell’opinione pubblica, grazie alla creazione di false onde di entusiasmo e derisione sui social media. In particolare, ha detto di essere stato coinvolto nella campagna presidenziale messicana del 2012 e di aver contribuito alla vittoria di Enrique Peña Nieto.

I giornalisti di Bloomberg scrivono di aver intervistato Sepúlveda nell’ufficio del procuratore generale della Colombia. Raccontano che ha la testa rasata e un tatuaggio con un codice QR sotto al quale sono scritte le parole “</head>” e “<body>”, due elementi HTML che indicano la fine della testata di una pagina web e l’inizio del corpo della pagina. Sepúlveda ha raccontato che il 2 luglio del 2012, mentre Enrique Peña Nieto stava annunciando la sua vittoria elettorale, lui si trovava in un lussuoso appartamento di Bogotà seduto davanti ai sei schermi collegati al suo computer. Una volta certo della vittoria di Nieto, cominciò a distruggere le prove del suo coinvolgimento in quelle elezioni: a cuocere nel microonde i circuiti di dischi rigidi e cellulari, a triturare documenti e poi a buttarli nel gabinetto. A cancellare, scrive Bloomberg, la storia segreta di «una delle campagne elettorali più sporche dell’America Latina degli ultimi anni».

Sepúlveda ha detto di aver viaggiato in tutto il Sudamerica per manipolare le principali campagne politiche degli ultimi otto anni: in Nicaragua, Panama, Honduras, El Salvador, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Venezuela e Messico. In Messico ha spiegato di aver avuto a disposizione un budget di 600 mila dollari per compromettere le campagne presidenziali dei due principali avversari di Peña Nieto: Josefina Vázquez Mota e il socialista Andrés Manuel López Obrador. Lui e la sua squadra composta da altri sei hacker avrebbero installato dei software malevoli nei computer dei comitati dei due candidati, che avrebbero consentito un monitoraggio costante di telefoni e computer. Utilizzando queste informazioni, ha raccontato di aver usato un “esercito virtuale” di account Twitter falsi per dirigere il dibattito pubblico a favore di Peña Nieto, per esempio acclamando il suo piano per un cambiamento nell’approccio alla guerra contro il narcotraffico o per mettere in imbarazzo i suoi rivali in varie occasioni.

Nel suo articolo Bloomberg racconta molti singoli episodi, che non riguardano solo l’ultima campagna presidenziale del Messico. Anche se veniva ben pagato per il suo lavoro, Sepúlveda ha detto che il suo movente principale era politico. Ha sostenuto in generale candidati di destra e di centrodestra contro quelle che ha definito «dittature e governi socialisti». Sepúlveda ora è in carcere per reati di hacking connessi alle elezioni presidenziali colombiane del 2014 a sostegno del candidato dell’opposizione Óscar Iván Zuluaga, che perse al ballottaggio contro Juan Manuel Santos. Ha raccontato di essere cresciuto a nord di Bogotà, che da bambino ha assistito alle violenze della guerriglia marxista e che da grande ha partecipato alle attività dei movimenti di destra dell’America Latina. Dopo il divorzio dei genitori, quando aveva 15 anni, si è trasferito nella capitale e ha utilizzato un computer per la prima volta. Si è iscritto a una scuola locale di tecnologia e tramite un amico ha imparato a programmare.

La sua carriera è iniziata nel 2005 aiutando il fratello maggiore, pubblicista, per alcune campagne politiche di un partito allineato con l’allora presidente della Colombia Álvaro Uribe. Durante una visita alla sede del partito, Sepúlveda dice di aver usato il suo computer portatile riuscendo a scaricare le bozze dei futuri discorsi di Uribe. Venne scoperto da Juan José Rendón, consulente politico che ora vive a Miami, che ha lavorato per il partito di Peña Nieto per sedici anni e che sarebbe stato l’intermediario di Sepúlveda per le presidenziali messicane. Rendón era furioso e ma capendo le potenzialità delle sue capacità decise di assumerlo. Sepúlveda dice che il suo primo lavoro come hacker è stato infiltrarsi nel sito di un rivale di Uribe per rubarne il database e inviare ai contatti una serie di mail con false informazioni. Dice di aver ricevuto 15 mila dollari in contanti per un mese di lavoro: cinque volte più di quanto avesse guadagnato con il suo lavoro precedente, quello di web designer.

Nel corso degli anni ha riunito attorno a sé squadre di hacker per manipolare diverse campagne elettorali e fornire vari servizi: 12 mila dollari al mese per la sorveglianza di un telefono e la creazione o la clonazione di siti fasulli; 20mila dollari mensili per intercettazioni digitali, attacchi e decodificazioni di documenti criptati. I lavori erano commissionati da intermediari e consulenti. Sepúlveda ha detto di aver distrutto la maggior parte delle prove delle sue affermazioni e che molti dei candidati che ha aiutato potrebbero non essere stati a conoscenza del suo ruolo.

Sepúlveda ha detto che veniva pagato in contanti (la metà in anticipo), che viaggiava con un passaporto falso e che veniva sistemato in un albergo da solo lontano dai membri della campagna. Nessuno poteva entrare nella sua stanza con uno smartphone o una fotocamera. Da Rendón riceveva un primo foglio di carta con obiettivi, indirizzi mail e numeri di telefono. Inseriva i dati in un file crittografato e poi bruciava il foglio. Le successive comunicazioni con Rendón avvenivano tramite un linguaggio in codice (“Ascolta la musica” significava per esempio che doveva intercettare le telefonate di un bersaglio); le comunicazioni a voce avvenivano attraverso telefoni criptati che venivano sostituiti ogni due mesi. Quotidianamente inviava dei rapporti da account di posta elettronica usa e getta a un intermediario di Rendón. Le informazioni venivano classificate in base alla loro importanza attraverso dei codici di colore: rosso per quelle più sensibili, giallo per quelle meno importanti. Lavorava da case in affitto di Bogotà con squadre che andavano dai 7 ai 15 hacker scelti a rotazione e provenienti da diverse parti del Sudamerica.

Le affermazioni di Sepúlveda sono state contestate da alcune delle persone che ha accusato. Innanzitutto da Juan José Rendón, che ha smentito ogni dichiarazione dicendo di aver incontrato l’hacker solo una volta e di averlo assunto attraverso dei subappaltatori per la progettazione di alcuni siti. Bloomberg scrive di aver visto alcuni documenti che Sepúlveda ha conservato come una specie di “polizza assicurativa” sulla vita, in cui ci sono delle conversazioni tra lui, Rendón e altri hacker che proverebbero la sua versione dei fatti. Rendón dice che quelle mail sono false. Dall’analisi effettuata da una società di sicurezza informatica indipendente citata da Bloomberg, sembrerebbero invece essere autentiche. Sepúlveda ha detto anche di aver ricevuto offerte di lavoro dalla Spagna, che però avrebbe rifiutato. Alla domanda se la campagna presidenziale degli Stati Uniti è in qualche modo compromessa, la risposta è stata: «Sono sicuro al cento per cento che lo sia».

Rendón ha anche messo in dubbio l’idea che Internet sia stata determinante nella formazione dell’opinione pubblica: «Si può cambiare veramente la volontà del popolo attraverso i social network? Forse in Ucraina o in Siria, dove non ci sono alternative. Ma qui, dove c’è la tv, una stampa libera e delle campagne porta a porta, non è così influente», ha detto. Sepúlveda ha invece detto che il suo principale contributo è stato capire che gli elettori si fidano più delle reazioni spontanee di quelle che credono essere persone comuni che di quanto affermano gli esperti che parlano in televisione o scrivono sui giornali: Sepúlveda, scrive Bloomberg, «sapeva che era possibile creare account falsi e tendenze sui social network, il tutto a un prezzo relativamente basso. Ha creato anche un software, chiamato “Depredador de Redes Sociales”, in grado di gestire un esercito virtuale di falsi account Twitter. Il software permetteva di cambiare rapidamente i nomi, le immagini dei profili e le biografie per adattarsi a qualsiasi circostanza». Nel corso del tempo Sepúlveda ha capito che manipolare l’opinione pubblica era facile «come spostare i pezzi di una scacchiera»: «Quando mi sono reso conto che la gente crede più in ciò che si dice su Internet che alla realtà, ho scoperto che avevo il potere di far credere alla gente quasi tutto». L’ufficio di Peña Nieto ha pubblicato una dichiarazione dopo la pubblicazione dell’articolo di Bloomberg, dicendo: «Noi neghiamo ogni rapporto tra il team della campagna presidenziale del 2012 e Andrés Sepúlveda».