Perché Apple non vuole che facciamo riparare gli iPhone dove ci pare

Loro dicono che è per la sicurezza dei clienti, altri parlano di controllo dei brevetti e prodotti: di certo non favorisce la libera concorrenza

di Adam Minter - Bloomberg

Immaginate che la FIAT possa rendere inutilizzabile il motore della vostra Punto perché avete deciso di far riparare le serrature delle portiere in un’officina di quartiere invece che dal concessionario autorizzato. A voi potrebbe sembrare assurdo, ma per Apple non lo è.

Dal 2014 l’azienda produttrice di smartphone più ricca al mondo disattiva in modo permanente e senza preavviso gli iPhone il cui tasto “home” (quello in basso, che tra le altre cose rileva le impronte digitali del proprietario) sia stato sostituito in un negozio di riparazioni, magari allo scopo di aggiustare lo schermo crepato. Gli iPhone che hanno subìto lo stesso intervento in centri Apple, invece, hanno continuato a funzionare perfettamente. Il messaggio sembra chiaro, almeno per il miliardario settore delle riparazioni indipendenti: il telefono è vostro finché non lo riparate, ma dopo appartiene a Apple.

Apple sostiene che sta solo cercando di mantenere gli iPhone «sicuri» e che l'”Errore 53“, la dicitura che appare sullo schermo del telefono dopo che è stato bloccato da Apple, serve a fare in modo che nessuno manometta il sensore per le impronte digitali del telefono. Qualunque fosse l’intenzione, però, Apple adesso si trova nel mezzo di una controversia legale e di immagine che potrebbe rivoluzionare il redditizio settore della manutenzione dei dispositivi tecnologici.

L’origine di questa controversia risale al 2009, quando Apple iniziò a usare delle viti brevettate prima per i suoi MacBook e poi per gli iPhone, in modo da scoraggiare i patiti del fai da te dal fare piccole riparazioni o modificare l’hardware. Sebbene alla fine i negozi di riparazioni riuscirono a ottenere delle viti compatibili – fabbricandole – l’episodio mostrò quanto Apple fosse paranoica all’idea che qualcuno potesse provare ad aggiustare i suoi prodotti: tra le altre cose, Apple rifiuta di pubblicare manuali per la riparazione dei suoi dispositivi, mantiene un controllo ferreo sulle parti di ricambio, non condivide informazioni sugli strumenti e i software per il rilevamento dei problemi, e non accetta nemmeno candidature di nuovi fornitori di servizi autorizzati. Tutto questo mostra la volontà di Apple di limitare la scelta del consumatore a favore dei suoi servizi.

Ovviamente quello di Apple non è l’unico modello di business del genere: da decenni le case produttrici di auto e i concessionari fanno il possibile per danneggiare le autofficine, limitando l’accesso alle parti originali e agli strumenti per rilevare i problemi. I risultati in entrambi i settori sono intuibili: le officine non possono servire potenziali clienti e i consumatori non hanno il vantaggio della libera concorrenza, cioè prezzi più bassi e maggiore comodità. Nel 2000, sotto la minaccia dalla legge americana sul cosiddetto “diritto alla riparazione”, le case produttrice di auto, i concessionari, e le officine di manutenzione formarono un’organizzazione per condividere informazioni sulla riparazione delle moderne auto hi-tech. Dal momento però che l’affiliazione era volontaria, c’erano pochi incentivi a diffondere informazioni utili, specialmente in tempi rapidi. Lo stato del Massachusetts fece un passo ulteriore, obbligando i produttori e i concessionari a fornire alle officine per le riparazioni le stesse informazioni e gli stessi strumenti a disposizione dei concessionari autorizzati. Per paura che altri stati potessero fare altrettanto, i produttori accettarono di rendere la norma vincolante entro il 2018. Questo significa che presto i reparti manutenzione autorizzati dovranno rendere i prezzi più competitivi: un’ottima notizia per i consumatori.

Per ora non esiste niente di simile nel mondo dell’elettronica, ma l’atteggiamento aggressivo di Apple potrebbe cambiare le cose. Diversi stati americani stanno prendendo seriamente in considerazione la possibilità di varare leggi che obblighino le aziende del settore tecnologico a condividere informazioni sulle riparazioni e vendere parti di ricambio a prezzi ragionevoli.

Ovviamente, Apple potrebbe risolvere il problema da sola. Potrebbe mettere a disposizione dei negozi strumenti e parti di ricambio a prezzo di mercato, formare un’associazione con i suoi concorrenti per incoraggiare la condivisione di informazioni, e persino promuovere uno standard di certificazione per garantire riparazioni di qualità. Certo, non sarebbe nel DNA di Apple, ma forse servirebbe a placare l’indignazione pubblica, ammorbidire gli enti regolatori all’erta e riappacificarsi con i consumatori in un periodo in cui le vendite sono in calo e, tra l’altro, evitare un’ondata di class action. Ma soprattutto, se i dirigenti di Apple non si occuperanno del problema, ci penseranno le leggi. Non sarebbe una cosa negativa: i centri Apple potrebbero accusare il colpo, ma i clienti – e i loro telefoni – ne guadagnerebbero soltanto.

© 2016 – Bloomberg