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  • Venerdì 9 ottobre 2015

Contro le elezioni

In un libro pubblicato da poco l'autore di "Congo" propone di sostituirle con il sorteggio, esponendo dati ed esperienze recenti

Feltrinelli ha pubblicato il libro Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, di David van Reybrouck, scrittore e giornalista belga, autore anche di Congo, che era stato pubblicato qualche mese fa sempre da Feltrinelli, ricevendo grandi apprezzamenti.
In questo libro, tradotto da Matilde Pinamonti, van Reybrouck suggerisce, per combattere la tendenza registrata negli ultimi anni a una sfiducia nelle classi politiche e a un sempre maggiore astensionismo alle elezioni, una soluzione radicale: abolire le elezioni e selezionare i componenti delle assemblee legislative tramite sorteggio. E porta, a motivare questa proposta, esempi, idee e esperienze pratiche che sembrerebbero dare ragione a quella che a prima vista può apparire come una posizione provocatoria e inaccettabile.
In queste pagine van Reybrouck racconta alcuni esempi concreti di assemblee legislative composte da elementi sorteggiati e non eletti, e della loro attività.

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Il rinnovamento democratico nella pratica (2004-2013)

Fra tutti i processi partecipativi di questi ultimi anni, ce ne sono cinque, a mio avviso, che si distinguono, perché più audaci, determinanti e di portata nazionale. Due si sono svolti in Canada, gli altri in Olanda, Islanda e Irlanda. Tutti hanno avuto luogo nell’ultimo decennio; tutti hanno ottenuto un mandato temporaneo e un budget considerevole dalle autorità pubbliche; tutti hanno riguardato questioni estremamente importanti, come la riforma della legge elettorale o perfino della Costituzione. Si era proprio nel cuore della democrazia. Queste iniziative avevano tutt’altra dimensione rispetto a quelle che miravano a far discutere i cittadini di eolico o di pannocchie.

Figura 4. Innovazione democratica in diversi paesi occidentali
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La figura 4 di cui sopra raccoglie i dati essenziali relativi a ciascun progetto. Distinguo due fasi. La prima, dal 2004 al 2009, riguarda i forum cittadini nelle province canadesi della Columbia Britannica e dell’Ontario, e tre progetti in Olanda sulla riforma della legge elettorale esistente, o per lo meno sull’elaborazione di una proposta di riforma.
La seconda fase comincia nel 2010 e prosegue ancora. Essa riguarda, fra l’altro, l’Assemblea costituente in Islanda (Stjórnlagaþing á Íslandi) e la Convenzione sulla Costituzione in Irlanda (An Coinbhinsiún ar an mBunreacht), due progetti mirati a proporre modifiche alla Costituzione. In Irlanda, l’iniziativa riguardava otto articoli, in Islanda il testo integrale. Invitare dei cittadini a riscrivere la Costituzione non è cosa da poco. Non è sicuramente un caso se due paesi che avevano sofferto molto per la crisi finanziaria nel 2008, hanno osato spingersi così in avanti nell’innovazione democratica. Il fallimento dell’Islanda e la recessione in Irlanda avevano fortemente minato la legittimità del modello dominante. Le autorità dovevano agire per ristabilire la fiducia.

Nel 2004, la Columbia Britannica ha avviato il più ambizioso processo deliberativo intrapreso nel mondo in tempi moderni. Questa provincia canadese voleva affidare la riforma della legge elettorale a un campione arbitrario di 160 cittadini. Il Canada utilizzava ancora il sistema elettorale britannico che funzionava secondo il principio della maggioranza: in una circoscrizione, quando un candidato arrivava in testa, anche se con pochissimo vantaggio, vinceva tutto (“the winner takes it all”, al contrario del sistema proporzionale). Era il più legittimo? I partecipanti alla citizens assembly si sarebbero riuniti regolarmente per circa un anno. La modifica delle regole elettorali è in genere un’impresa per la quale i partiti politici non riescono a trovare una soluzione: invece di cercare di servire l’interesse comune, si chiedono in continuazione in che misura un nuovo sistema rischi di danneggiarli.

Anche in Ontario l’idea di lavorare con dei cittadini indipendenti sembrava sensata. La provincia aveva il triplo di abitanti della Columbia Britannica, ma anche qui gli inviti furono spediti a un gran numero di cittadini scelti arbitrariamente, iscritti nelle liste elettorali. Le persone interessate potevano presentarsi a una riunione informativa e, se lo desideravano, confermare la loro partecipazione. Da questo gruppo di candidati, doveva essere sorteggiato un campione rappresentativo di 103 cittadini: tra loro dovevano figurare 52 donne e 51 uomini, di cui almeno un autoctono, e la piramide delle età doveva essere rispettata. Solo il presidente era nominato. Sulla totalità dei partecipanti all’assemblea, 77 erano nati in Canada e 27 venivano dall’estero. Essi esercitavano mestieri tipo: educatore per l’infanzia, contabile, operaio, insegnante, funzionario, imprenditore, informatico, studente o professionista sanitario.

Anche se l’Olanda ha un sistema elettorale che prevede uno scrutinio proporzionale, il partito politico D66 [Partito liberale riformista, situato nel centro-sinistra dell’arco politico, N.d.T.] si batte da anni per un miglioramento delle regole democratiche. Nel 2003, quando questo partito ha partecipato ai negoziati per la formazione di una coalizione di governo, ha convinto i suoi partner di coalizione a creare un forum civico sul sistema elettorale, in analogia con l’esperienza già condotta in Canada. Gli altri partiti fecero mostra di pochissimo entusiasmo, ma se questo era il prezzo da pagare per convincere il D66 a partecipare al governo, erano pronti a mettere mano al portafoglio. Dopo le elezioni anticipate del 2006 il D66 lasciò il governo, e il progetto fu in seguito accantonato – in modo così discreto che la maggior parte degli olandesi, anche i più fedeli lettori di giornali, non ne hanno più sentito parlare o se ne ricordano appena. Che peccato, perché come in Canada, erano stati realizzati dei lavori interessanti.

Nei tre casi citati, il reclutamento si svolgeva in tre tappe: 1) un campione casuale di cittadini era sorteggiato dalle liste elettorali: essi ricevevano un invito per posta; 2) seguiva un processo di autoselezione: chiunque fosse interessato, assisteva a una riunione informativa e poteva presentarsi come candidato per la fase successiva; 3) a partire da questi candidati si sorteggiavano i membri dell’équipe definitiva, tenendo conto di una ripartizione equilibrata in funzione dell’età, del sesso e di altri criteri. Si trattava di conseguenza di una triplice sequenza: sorteggio/autoselezione/sorteggio.
La concertazione durò, in questi tre luoghi diversi, tra i nove e i dodici mesi. Durante questo periodo, i partecipanti avevano l’opportunità di familiarizzare con le varie questioni grazie all’aiuto di specialisti e consultando documenti. In seguito, domandavano la loro opinione ad altri cittadini e deliberavano tra di loro. Infine, formulavano una proposta concreta per un’altra legge elettorale. (Sia detto per inciso, i cittadini dell’Ontario hanno scelto un altro modello elettorale rispetto alla Columbia Britannica: la deliberazione non è una manipolazione che mira a orientare le scelte in una direzione predeterminata.)

Ciò che colpisce, quando si leggono i resoconti online dei parlamenti cittadini canadesi e olandesi, è la ricchezza argomentativa a favore di un’alternativa tecnicamente valida. Chiunque dubiti del fatto che dei cittadini comuni, tirati a sorte, siano capaci di prendere decisioni sensate e razionali, dovrebbe leggere questi rapporti. Le conclusioni di Fishkin sono ancora una volta confermate.
Ma quello che colpisce è anche che nessuno di questi tre progetti sia riuscito a esercitare un’influenza reale sulla politica pubblica. Com’è possibile? Un contributo sensato, ma praticamente nessun risultato concreto? Purtroppo è così. Nei tre casi, la proposta dell’assemblea cittadina doveva essere confermata con un referendum. Evidentemente, il sorteggio non era uno strumento democratico abbastanza familiare da beneficiare immediatamente di una legittimità incontestabile. Era come se si dovesse convalidare la sentenza di un jury americano di cittadini con un referendum. Ebbene, fu quello che accadde. Quindi, il lavoro fatto per mesi da diverse decine di cittadini fu sottoposto al giudizio immediato della popolazione. Nella Columbia Britannica, il 57,7 per cento dei cittadini votò a favore. Era una percentuale alta, ma appena sotto la soglia stabilita del 60 per cento. (La proposta ebbe una seconda chance nel 2009, ma l’entusiasmo scese allora al 39,9 per cento.) In Ontario, solo il 36,9 per cento dei cittadini espresse un voto favorevole. E in Olanda, il governo Balkenende non volle dare seguito alle linee guida sul sistema elettorale del forum civico, per il quale aveva speso più di 5 milioni di euro.

Il rinnovamento democratico è un processo lento. Il fallimento definitivo del processo canadese e olandese è, in questo senso, particolarmente istruttivo. Ci sono molteplici spiegazioni: 1) i cittadini chiamati a votare nei referendum non avevano, come si è già detto, seguito le deliberazioni: il loro parere istintivo espresso nella cabina elettorale contrastava fortemente con l’opinione avveduta delle persone coinvolte nel processo; 2) i forum civici non sono altro che istituzioni temporanee, dal mandato limitato: hanno pertanto meno peso rispetto a degli organi formali permanenti; 3) i partiti politici avevano spesso interesse a screditare la proposta o a ignorarla semplicemente, poiché la riforma del sistema elettorale avrebbe pregiudicato il loro potere: in Olanda, il governo finì addirittura per decidere di non organizzare referendum e cestinare direttamente le linee guida; 4) i media commerciali avevano spesso, in Canada, un atteggiamento molto ostile nei confronti delle assemblee cittadine indipendentemente dal contenuto delle proposte: in Ontario, la stampa si comportava perfino in modo “istericamente negativo”; 5) i forum civici erano spesso privi di portavoce esperti e di budget sufficienti per la campagna: benché fossero i media a emettere il verdetto, le risorse finanziarie erano spesso dedicate al funzionamento interno piuttosto che al marketing; 6) i referendum su proposte di riforma complesse privilegiano forse sempre il fronte del no: “if you don’t know, say no”, se non sapete, dite di no, questo è il motto; nel caso della Costituzione europea per esempio, agli avversari del progetto è bastato seminare il dubbio, mentre il fronte del sì si è dovuto mostrare molto più convincente e comunicare di più. Possiamo chiederci se i referendum siano uno strumento adatto per prendere una decisione su questioni complesse.

In questi ultimi decenni, il referendum è stato spesso presentato come un mezzo efficace per riformare la democrazia. In un’epoca in cui la collettività si individualizza e la società civile pesa meno di una volta, è parso utile a molti osservatori chiedere direttamente alla popolazione il suo parere su questioni controverse. I referendum sulla Costituzione europea in Olanda, Francia e Irlanda hanno in un certo senso raffreddato l’entusiasmo verso questo metodo decisionale. Tuttavia, gode ancora di una grande popolarità, come testimoniano i referendum sull’autonomia della Catalogna e della Scozia, sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. I referendum e la democrazia deliberativa hanno in comune solo il fatto che, in entrambi i casi, il cittadino comune è consultato, quanto al resto, i meccanismi sono totalmente opposti: in un referendum, si chiede a tutti di votare su un argomento a proposito del quale, il più delle volte, poche persone sono informate; nel caso di un progetto deliberativo, si chiede a un campione rappresentativo della popolazione di deliberare su un argomento sul quale ottiene più informazioni possibili. In un referendum, la gente reagisce ancora molto spesso d’istinto in una deliberazione, è un’opinione pubblica informata a esprimersi.

Per quanto le assemblee cittadine facciano un ottimo lavoro, non basta. Presto o tardi, devono far conoscere le loro conclusioni. Ed è sempre un processo faticoso. L’universo chiuso della deliberazione civile è improvvisamente illuminato dalla luce viva dello spazio pubblico. Succede sempre che gli avversari più accaniti appartengono ai partiti politici e ai media commerciali. Questo fenomeno così diffuso è di per sé intrigante. Da dove viene questa causticità? Numerosi universitari e attivisti se lo domandano. Mentre la società civile si mostra spesso favorevole a una maggiore partecipazione dei cittadini – se non altro perché i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali, i movimenti giovanili, le associazioni di donne e altri attori della vita associativa ne sono coinvolti da più di un secolo –, la stampa e il mondo politico adottano un atteggiamento spesso alquanto derisorio. È perché la stampa e il mondo politico hanno l’abitudine di essere i guardiani dell’opinione pubblica e non vogliono rinunciare a questo privilegio? Questo fattore ha sicuramente il suo peso. È perché la stampa e il mondo politico appartengono al vecchio sistema rappresentativo elettivo e hanno quindi poca presa sulle nuove forme di democrazia? È possibile. È perché, quando si funziona dall’alto verso il basso, si è forse più facilmente disturbati da nuove iniziative che vanno dal basso in alto? Non è escluso.

Ma intervengono anche altri fattori. I partiti politici temono l’atteggiamento dei loro elettori. Molti cittadini diffidano dei loro politici, si sa, ma i politici sono altrettanto diffidenti nei confronti dei loro cittadini, e questa constatazione è nuova. Non dimentichiamo le ricerche condotte dall’olandese Peter Kanne, che hanno mostrato che nove politici su dieci non si fidano della popolazione civile. Se i politici sono collettivamente convinti che, per definizione, la popolazione abbia idee diverse dalle loro, non c’è da stupirsi che, di primo acchito, si mostrino scettici all’idea della sua partecipazione.
Anche i media hanno dei dubbi a riguardo. I processi deliberativi con dei cittadini sorteggiati sono spesso esperienze intense per i partecipanti stessi, ma sono poco adatti ai format utilizzati attualmente per coprire le notizie: sono lenti, non ci sono personaggi in vista, nessun volto noto, nessun conflitto di rilievo. Solo cittadini che discutono, seduti intorno a tavole rotonde, con post-it in mano e pennarelli. Non è esattamente l’ideale per soddisfare uno spettatore. La democrazia parlamentare è un teatro, offre momenti formidabili di televisione, mentre la democrazia deliberativa non è per niente spettacolare e si trasforma difficilmente in racconto. In passato, Channel 4 diffondeva il programma The People’s Parliament, una serie di trasmissioni che hanno beneficiato dei consigli di James Fishkin, in cui centinaia di cittadini sorteggiati dibattevano temi controversi come la criminalità tra i giovani e il diritto di voto. Il canale ha interrotto la serie dopo qualche puntata: “non aveva presa”, semplicemente. Anche questo fattore spiega le riserve dei media.
In Islanda, l’iniziativa ha tenuto conto degli insuccessi registrati dalle esperienze canadese e olandese. Per evitare che il lavoro di un campione di cittadini finisse in spazzatura, sono state introdotte tre modifiche fondamentali. Innanzitutto, non sono dai 100 ai 160 cittadini a essersi messi al lavoro dopo il sorteggio, ma 25, per di più eletti! I candidati dovevano raccogliere 30 firme; in totale, si sono presentate 522 persone. Il resto della popolazione si è recato alle urne per eleggere l’équipe di 25 membri. (Dopo battibecchi tra i partiti politici, lo scrutinio fu invalidato, e il Parlamento decise allora di scegliere gli eletti, ma l’incidente in questo caso è secondario. La filosofia del progetto era, infatti, che il forum costituzionale fosse eletto.) In secondo luogo, l’obiettivo era di evitare che le attività di questa équipe ristretta fossero prive di legittimità agli occhi degli elettori e dei politici. Migliaia di cittadini hanno quindi potuto deliberare in via preliminare sui princìpi e i valori della nuova Costituzione, mentre sette politici professionisti elaboravano delle raccomandazioni a premessa di un documento di settecento pagine. Ecco ciò che avrebbe dovuto tarpare le ali a chi avesse espresso, in seguito, delle critiche. In terzo luogo, l’organizzazione ha scelto deliberatamente di non rinchiudere l’équipe di 25 membri in una sorta di scatola nera, da cui sarebbe uscita, dopo mesi di deliberazioni interne, una Costituzione già pronta. Durante la redazione, ogni settimana, quest’assemblea pubblicava su un sito internet le versioni provvisorie degli articoli della Costituzione. Le reazioni su Facebook, Twitter e altri media davano luogo a versioni più recenti che erano di nuovo messe online e così via. Circa 4000 commenti sono così venuti ad arricchire il processo. Trasparenza e deliberazione, queste erano le parole d’ordine. L’“International Herald Tribunene ha parlato come della prima Costituzione nata dal crowdsourcing (“partecipazione aperta”).
Il risultato era prevedibile: il 20 ottobre 2012, quando la proposta di Costituzione fu sottoposta ai cittadini islandesi mediante un referendum, essa fu adottata con i due terzi dei voti. Una questione supplementare emerse nel corso delle deliberazioni del consiglio incaricato di decidere sulla Costituzione: le ricchezze naturali dell’isola detenute a titolo privato dovevano diventare proprietà dello stato? Non meno dell’83 per cento dei voti fu favorevole.

Fino ad ora, l’avventura islandese costituisce indiscutibilmente l’esempio più riuscito di democrazia deliberativa. Bisogna attribuire la ragione di questo successo alla grande apertura dell’insieme del processo? O appunto alla scelta delle elezioni piuttosto che del sorteggio? Difficile a dirsi. Non c’è alcun dubbio che le elezioni hanno permesso di riunire inizialmente delle persone competenti. Ciò ha favorito l’efficacia – nel giro di quattro mesi, esse hanno elaborato una nuova Costituzione. Tuttavia, la legittimità non ci ha veramente guadagnato. Ci si può interrogare sul carattere differenziato di un’Assemblea costituente di 25 membri, che conta, fra gli altri, sette dirigenti (di università, di musei e di sindacati), cinque professori o docenti universitari, quattro personalità dei media, quattro artisti, due giuristi e un pastore? Perfino il padre della cantante Björk, un sindacalista di primo piano, vi ha preso parte. Tra i membri c’era solo un agricoltore. La composizione del campione era sicuramente, dal punto di vista metodologico, l’anello più debole dell’insieme della concertazione cittadina islandese. Indubbiamente, ciò che contribuì all’approvazione in massa del progetto fu l’impressionante trasparenza di cui diede prova il processo, piuttosto che la composizione del campione di cittadini. Perciò una questione persiste: un’équipe di cittadini semplicemente estratti a sorte, con più tempo e la stessa apertura, avrebbe potuto elaborare una Costituzione capace di raggiungere lo stesso buon risultato se sottoposta a un referendum?

Questa questione si è posta poco tempo dopo in Irlanda. La Convenzione sulla Costituzione, che ha cominciato i suoi lavori nel gennaio 2013, ha ugualmente tratto insegnamento dalla prima fase delle esperienze democratiche. Le sue conclusioni erano le seguenti: bisognava coinvolgere molto di più i politici (come in Islanda), continuando però a sorteggiare i cittadini (a differenza dell’Islanda). Gli irlandesi hanno anche pensato di avere più chance di successo e di implementazione associando fin dall’inizio i politici al processo. L’hanno fatto molto prima degli islandesi. In questo caso, non si trattava di chiedere a una manciata di eletti di formulare delle linee guida preliminari, c’era invece una volontà deliberata di riunire dei politici e dei cittadini lungo tutto il percorso: 66 cittadini e 33 politici professionisti, originari della Repubblica d’Irlanda e dell’Irlanda del Nord, tra i quali Gerry Adams, avrebbero deliberato insieme per un anno. Può sembrare curioso che un processo di partecipazione cittadina dia ancora la parola a dei rappresentanti noti dei partiti politici, con il loro talento oratorio e la loro conoscenza dei dossier. Ma questa scelta favorisce un’applicazione rapida delle decisioni, libera i politici dalla loro apprensione nei confronti di una partecipazione cittadina ed evita in seguito il sarcasmo dei partiti. Durante un processo deliberativo, si produce spesso un fenomeno curioso: i politici perdono la loro diffidenza nei confronti del cittadino, così come i cittadini perdono la loro diffidenza nei confronti dei politici. La partecipazione cittadina può rafforzare la fiducia reciproca. C’è allora il rischio che i politici abbiano il sopravvento? Dobbiamo attendere le analisi del modello irlandese, ma se il processo è ben concepito, un meccanismo interno di “pesi e contrappesi”, in particolare la suddivisione in sottogruppi e la ripartizione della decisione, impedisce a un piccolo numero di partecipanti di predominare.

Inoltre, gli irlandesi hanno optato decisamente per il sorteggio. La loro Convenzione sulla Costituzione s’ispirava a un precedente fortunato progetto, We the Citizens, dell’University College di Dublino, messo in atto con dei cittadini sorteggiati. Un istituto indipendente di ricerca ha composto un gruppo aleatorio di 66 persone, tenendo conto dell’età, del sesso e dell’origine (Repubblica d’Irlanda o Irlanda del Nord). La diversità che ne derivava costituiva un fattore utile per parlare di temi sensibili come il matrimonio omosessuale, i diritti della donna o il divieto di blasfemia nella Costituzione attuale. I partecipanti non agivano da soli: anche in Irlanda, ascoltavano degli specialisti e accoglievano gli interventi di altri cittadini (hanno ricevuto più di un migliaio di contributi sul matrimonio omosessuale). Le decisioni della Convenzione non avevano ancora forza di legge: le raccomandazioni dovevano prima essere approvate dalle due camere del Parlamento irlandese, poi essere esaminate dal governo e infine sottoposte a referendum. E di conseguenza superare ancora molti sbarramenti, poiché, durante la seconda fase dei forum civici, persisteva il timore che il sorteggio provocasse forti agitazioni.

Il rinnovamento democratico nel futuro: le assemblee estratte a sorte

Se mi sono soffermato sugli esempi del Canada, dell’Olanda, dell’Islanda e dell’Irlanda, è perché si tratta di esperienze appassionanti d’innovazione democratica. Sebbene siano state condotte su larga scala e abbiano contemplato temi fondamentali, i principali media stranieri hanno raramente coperto questi avvenimenti. Le conoscenze e le esperienze accumulate non sono quindi state segnalate all’attenzione di un più vasto pubblico internazionale. Questo ritardo di comunicazione non impedisce però ad altre persone di essere due passi avanti nella riflessione su tali argomenti. La democrazia si evolve a ritmi diversi: mentre i politici esitano, i media diffidano e i cittadini restano nell’ignoranza, degli universitari e attivisti corrono già verso nuovi orizzonti. La loro missione è quella di “avere ragione troppo presto”, come ha detto recentemente il filosofo belga Philippe van Parijs. Verso la metà del Diciannovesimo secolo, quando John Stuart Mill affermava che alle donne doveva essere riconosciuto il diritto di voto, i suoi contemporanei lo tacciavano di follia.

Consapevoli che avrebbero ottenuto nient’altro che scherno e cenni del capo pieni di commiserazione, diversi autori hanno difeso, durante l’ultimo decennio, la necessità di radicare il sistema del sorteggio nella democrazia attraverso le istituzioni e la Costituzione. Hanno sostenuto che non bisognasse limitarsi a dei progetti puntuali; i cittadini sorteggiati dovevano fare strutturalmente parte dell’apparato statale. In che modo? Questo era l’oggetto delle discussioni. La maggior parte degli studiosi ha proposto che uno degli organi legislativi sia costituito per sorteggio. Da allora, più di una ventina di scenari di questo tipo sono in preparazione. Tutti gli autori hanno convenuto che un Parlamento composto in modo aleatorio possa favorire la legittimità e l’efficacia. La legittimità, perché ristabilisce l’ideale di una condivisione equa delle chance politiche. L’efficacia, perché questa nuova rappresentanza nazionale non si perderebbe in un tiro alla fune tra partiti politici, nei giochi elettorali, nelle battaglie mediatiche o in un mercanteggiamento legislativo. Essa perseguirebbe solo l’interesse generale. Mi soffermo ora su cinque delle principali proposte (figura 5).

Nel 1985, gli autori americani Ernest Callenbach e Michael Phillips hanno suggerito di trasformare la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti in Camera rappresentativa. I 435 rappresentanti non dovevano più essere eletti ma sorteggiati. Gli autori non sono affatto dei venditori di fumo. Ernest Callenbach si era fatto conoscere alcuni anni prima con il suo libro Ecotopia, di cui fu venduto un milione di copie. Molte delle sue idee ritenute audaci all’epoca sono oggi comunemente condivise. Michael Phillips era un banchiere che aveva pubblicato dei lavori come The Seven Laws of Money e Honest Business. Negli anni sessanta, era stato il “cervello” della MasterCard.
Ai loro occhi, il sistema elettivo puro esistente oggi non è abbastanza rappresentativo ed è troppo esposto alla corruzione. Il potere del denaro pesa troppo e il sorteggio può essere un buon rimedio. Dei cittadini presi a caso, sorteggiati dalle liste esistenti di giurati (più inclusive delle liste elettorali, negli Stati Uniti), assumerebbero per tre anni le funzioni di rappresentanti al Congresso. La remunerazione sarebbe adeguata, in modo da garantire che i poveri abbiano voglia di partecipare, che i ricchi interrompano la loro attività professionale e che le persone cariche di lavoro possano liberarsene. Per assicurare la continuità, i membri della Camera non potrebbero lasciarla tutti nello stesso momento, ma a scaglioni, vale a dire un terzo ogni anno. Il loro ruolo non dovrebbe allontanarsi, secondo gli autori, da quello della Camera attuale: proporre delle leggi al Senato ed esaminare le proposte del Senato.
È da notare che Callenbach e Phillips non sostengono la soppressione totale delle elezioni. Trovano giustamente sensato mettere, di fronte a un Senato di cittadini eletti, una Camera composta unicamente da cittadini sorteggiati. La rappresentanza dev’essere ottenuta equamente attraverso un processo elettivo e aleatorio. “Siamo convinti che l’idea di una rappresentanza diretta non abbia nulla di aberrante. Non appena sarà compresa ovunque, sarà altrettanto giusta e legittima, potente e attrattiva, di quanto lo è stata un tempo l’estensione del diritto di voto.”

Figura 5. Proposte per il sorteggio di assemblee legislative
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In questi ultimi anni, diversi autori hanno perfezionato il loro progetto. Delle proposte sono state fatte anche per il Regno Unito. Secondo Anthony Barnett e Peter Carty, la Camera dei lord, unico Senato in Occidente dove certi membri siedono ancora in virtù del diritto ereditario, dovrebbe essere democratizzata. Barnett, fondatore del sito internet OpenDemocracy, scrive anche regolarmente per il quotidiano “The Guardian”; Carty collabora con diversi giornali britannici di qualità (“The Guardian”, “The Independent”, “The Independent on Sunday”, “Financial Times”). Contrariamente ai loro colleghi americani, non è la Camera bassa, ma la Camera alta che vogliono costituire per sorteggio. Non pensano nemmeno che un organo così formato debba essere ammesso a proporre delle leggi; basta che sorvegli la legislazione emanata dalla Camera dei comuni. La nuova Camera dei lord costituita per sorteggio, ribattezzata “Camera dei pari”, deve dunque garantire la chiarezza, l’efficacia e la costituzionalità delle proposte di legge. Naturalmente, sono consapevoli di proporre un cambiamento radicale, ma una democrazia dev’essere lungimirante. “Si dice a volte che la vita di ogni grande idea si componga di tre fasi. All’inizio è ignorata, poi è ridicolizzata e alla fine è ammessa come espressione della saggezza popolare.”

Keith Sutherland, un ricercatore legato all’Università di Exeter, manifestando le sue posizioni conservatrici, ritiene che dovrebbe verificarsi proprio l’opposto. La Camera dei lord resterebbe la Camera dei lord, mentre la Camera dei comuni dovrebbe essere trasformata in un organo costituito per sorteggio, come la Camera dei rappresentanti nella proposta americana. Anche lui pensa che un compenso generoso sia importante e si allinea con i suoi colleghi britannici proponendo di non accordare il diritto di prendere delle iniziative alla Camera composta per sorteggio. Si chiede, in compenso, se delle condizioni minime non dovrebbero essere fissate riguardo all’età, all’istruzione e alle competenze. Da buon conservatore, suggerisce inoltre di sorteggiare solo le persone di più di quarant’anni: i bisogni delle fasce più giovani della popolazione sono secondo lui sufficientemente presi in considerazione dai mass media, dai partiti politici e dalle campagne di marketing. In ogni caso, il messaggio fondamentale è chiaro: “Il sorteggio è una componente indispensabile di ogni regime politico che si definisca democratico”.

In Francia, il politologo Yves Sintomer, invece di fare dell’Assemblea o del Senato una Camera estratta a sorte, ha proposto di arricchire il sistema con una nuova Camera. Questa “terza Camera” sarebbe composta di membri estratti a sorte tra dei candidati volontari. Sottolinea anche l’importanza di una remunerazione sufficiente e di una buona trasmissione delle informazioni. I deputati sorteggiati dovrebbero potersi far aiutare da collaboratori, come succede già nel caso dei deputati eletti. Non specifica quale diritto dovrebbe essere attribuito e a chi, ma suggerisce che la terza Camera si occupi di temi che esigono un progetto a lungo termine (ecologia, questioni sociali, legge elettorale, Costituzione). È, infatti, la dimensione che, nel modello attuale, manca troppo spesso.
Anche Hubertus Buchstein, professore d’università tedesco, sostiene la creazione di una Camera supplementare, non a livello nazionale ma sovranazionale. Bisognerebbe stabilire un secondo Parlamento europeo, afferma, composto questa volta da cittadini sorteggiati. È quello che egli chiama House of Lots, la Camera dei sorteggiati. I duecento partecipanti dovrebbero essere sorteggiati sulla totalità della popolazione adulta dell’Unione europea, e distribuiti con il proporzionale tra gli stati membri, per una durata di due anni e mezzo. La partecipazione sarebbe obbligatoria, salvo in caso di gravi impedimenti. Anche per lui, le condizioni finanziarie e organizzative devono essere tali che non sia praticabile ritirarsi. Al contrario degli autori britannici, pensa che questo secondo Parlamento dell’Ue debba appunto poter prendere l’iniziativa legislativa, oltre ad essere abilitato a dettare linee guida e avere il diritto di veto. Si tratta di misure radicali, ma Buchstein è dell’avviso che bisogna fare delle pressioni per incoraggiare decisioni deliberative, capaci di contrastare il deficit democratico in Europa. È solo grazie a queste pressioni che l’Unione europea può sperare in un processo decisionale efficace e trasparente.

Che cosa risulta dalla comparazione di queste diverse proposte? Innanzitutto, esse riguardano sempre delle entità molto grandi: la Francia, il Regno Unito, gli Stati Uniti o l’Unione europea. È finito il tempo in cui il sorteggio sembrava adatto solo alle città-stato e ai microstati. In secondo luogo, nonostante le considerevoli divergenze di opinione, un consenso esiste riguardo alla durata (al massimo qualche anno) e alla remunerazione (meglio che sia generosa). In terzo luogo, la disparità di competenze di cui sono dotati i cittadini dev’essere compensata da una formazione e dall’appoggio di specialisti, come succede già nei parlamenti. In quarto luogo, l’organo sorteggiato non è mai considerato isolatamente dall’organo eletto, ma come un complemento. Infine, il sorteggio riguarda sempre solo una Camera legislativa.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano