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  • Lunedì 22 settembre 2014

Storia delle storie del Congo

L'inizio del bel librone di David Van Reybrouck sul paese africano, i suoi abitanti e la sua geografia, appena tradotto da Feltrinelli

Feltrinelli ha appena pubblicato il libro Congo di David Van Reybrouck, tradotto da Franco Paris. Van Reybrouck è un ricercatore all’Università di Lovanio in Belgio e giornalista del quotidiano belga “De Morgen”: il libro è una grande e avvincente ricostruzione storico-geografica sul Congo, che comprende testimonianze raccolte intervistando centinaia di persone “comuni”, e racconta il Congo dal periodo precoloniale a oggi passando per la dominazione belga, l’indipendenza e le guerre civili; e la sua geografia, partendo dall’estuario del fiume Congo per arrivare alle grandi montagne attraverso giungla e città.
Van Reybrouck è in Italia per presentare il libro domenica 21 a Pordenone, lunedì 22 a Milano e venerdì 26 a Roma.
Questo è l’inizio dell’introduzione dell’autore al libro.

***

È sempre l’oceano, ovviamente, ma si vede che qualcosa è cambiato, il suo colore è diverso. Le onde, basse e larghe, continuano a dondolare delicatamente, c’è ancora soltanto oceano, ma il blu si macchia a poco a poco di giallo. Però non si forma il verde, contrariamente al ricordo che ci ha lasciato la teoria dei colori, ma qualcosa di torbido. L’azzurro luminoso è scomparso. L’increspatura turchese sotto il sole di mezzogiorno è sparita. Il cobalto insondabile da dove sorgeva il sole, l’oltremare del crepuscolo, il grigio piombo della notte: finiti.
D’ora in avanti è tutto un brodo.
Un brodo giallastro, ocra, ruggine. Ti trovi ancora a centinaia di miglia dalla costa, ma già lo sai: qui comincia la terra. Il fiume Congo si getta nell’Oceano Atlantico con una forza tale da cambiare il colore dell’acqua per centinaia di chilometri.
Un tempo il viaggiatore che navigava per la prima volta verso il Congo con il piroscafo, a causa di questo scolorimento, pensava di essere quasi arrivato. Ma l’equipaggio e i veterani chiarivano ben presto al nuovo venuto che bisognava navigare ancora per due giorni pieni, giorni in cui avrebbe visto l’acqua diventare sempre più scura e sporca. Appoggiato al parapetto della poppa, il viaggiatore notava il contrasto sempre più accentuato con l’acqua blu dell’oceano che l’elica continuava a far risalire dal fondo. Dopo un po’ si vedevano passare zolle, isolette, grossi ciuffi d’erba risputati dal fiume e sballottati ora dalle onde dell’oceano. Attraverso l’oblò della sua cabina, distingueva le forme lugubri dell’acqua, “pezzi di legno e alberi sradicati, strappati via molto tempo prima da oscure foreste vergini, perché i tronchi neri erano senza foglie e i monconi spogli dei grossi rami roteavano talvolta sulla superficie prima di rituffarsi”.
Le immagini del satellite lo mostrano chiaramente: una macchia brunastra che, durante il picco della stagione dei monsoni, si estende verso ovest per ottocento chilometri. Sembra quasi una falla del continente. Gli oceanografi parlano del “ventaglio del Congo” o del “pennacchio del Congo”. Quando ho visto per la prima volta delle fotografie aeree ho pensato a una persona che si era tagliata i polsi e li teneva sotto l’acqua, ma per sempre. L’acqua del Congo, il secondo fiume più lungo dell’Africa, si tuffa letteralmente nell’oceano. Il fondo del fiume, roccioso, fa sì che la foce sia relativamente stretta. Contrariamente a quanto accaduto al Nilo, qui non si è formato un delta tranquillo verso il mare, e l’enorme massa d’acqua viene espulsa all’esterno attraverso un buco della serratura.
Il color ocra deriva dal limo accumulato dal fiume Congo nel suo tragitto di ben 4700 chilometri: dalle sorgenti sulle alte pendici nell’estremo sud del paese, attraverso la savana arida e le paludi coperte di lenticchie d’acqua del Katanga, lungo le sconfinate foreste equatoriali che occupano di fatto l’intera metà settentrionale del paese, fino ai mutevoli paesaggi del Basso Congo e alle mangrovie spettrali della foce. Ma il colore deriva anche dalle centinaia di fiumi e di affluenti che formano insieme il bacino del Congo, un’area di circa 3,7 milioni di chilometri quadrati, più di un decimo della superficie totale dell’Africa, che corrisponde perlopiù al territorio dell’omonima repubblica.
E tutte queste particelle di terra, tutti questi frammenti raschiati di argilla, limo e sabbia si lasciano trasportare a valle dalla corrente, verso il largo. Talvolta fluttuano tranquillamente scivolando via in modo impercettibile, talvolta si agitano frenetici portando buio e schiuma alla luce del giorno. Talvolta restano incastrati. A una roccia. A una sponda. A un relitto arrugginito che urla in silenzio alle nuvole e intorno al quale è cresciuto un banco di sabbia. Talvolta non incontrano niente, assolutamente niente, se non acqua, un’acqua sempre diversa, prima dolce, poi salmastra, infine salata.
Così quindi comincia un paese: diluito in una grande quantità di acqua di oceano.

Ma dove comincia la Storia? Anche in questo caso, molto prima di quanto si possa immaginare. Quando sei anni fa, per il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza del Congo, ho considerato la possibilità di scrivere un libro sulla turbolenta storia del paese, non solo durante il periodo postcoloniale, ma anche durante l’epoca coloniale e una parte di quella precoloniale, ho deciso che avrebbe avuto un senso soltanto se avessi dato la parola al maggior numero possibile di voci congolesi. Nel tentativo perlomeno di sfidare l’eurocentrismo che mi avrebbe certamente giocato dei brutti scherzi, mi è sembrato necessario andare sistematicamente alla ricerca della prospettiva locale o, per meglio dire, delle diverse prospettive locali, perché naturalmente non esiste una versione congolese unica della storia, così come non esiste una versione unica belga, europea o semplicemente “bianca”. Quante più voci congolesi possibili, dunque.
Il punto però è: da dove cominciare in un paese in cui, nello scorso decennio, l’aspettativa di vita media era inferiore ai quarantacinque anni? In un paese che festeggiava i cinquant’anni i suoi abitanti non raggiungevano più quell’età. Ovviamente c’erano voci che sgorgavano da fonti coloniali più o meno dimenticate. Missionari ed etnografi avevano annotato storie e canti magnifici. Gli stessi congolesi avevano scritto innumerevoli testi – con mia grande sorpresa avrei trovato persino un documento autobiografico della fine del diciannovesimo secolo. Io però ero in cerca di testimoni viventi, di persone che volessero rendermi partecipe della storia della loro vita, comprese le piccole cose. Ero in cerca di ciò che finisce raramente in un testo, perché la storia è molto, molto più di ciò che si scrive. Ciò vale sempre e dappertutto, ma è tanto più vero per le regioni in cui solo una piccola minoranza, in alto nella scala sociale, ha accesso alla parola scritta. Avendo studiato archeologia, attribuisco grande valore a informazioni non testuali, che consentono spesso di ottenere un quadro più completo e tangibile. Volevo intervistare delle persone, non necessariamente personalità influenti, ma individui comuni segnati dalla Storia con la S maiuscola. Volevo poter chiedere alle persone che cosa mangiavano in un certo periodo. Ero curioso di sapere quali colori avessero indossato, quale aspetto avesse la loro casa quando erano piccoli, se andassero in chiesa.
Si intende, è sempre rischioso farsi un’idea del passato estrapolandola da ciò che le persone raccontano oggi: non c’è niente di più attuale del ricordo. Ma se le opinioni sono particolarmente plasmabili – le mie fonti talvolta elogiavano la colonizzazione: perché le cose andavano benissimo a quei tempi? O perché adesso andavano tanto male? O perché parlavano con me che sono belga? –, i ricordi di oggetti o azioni banali invece oppongono spesso un’inerzia maggiore. La bicicletta o ce l’avevi o non ce l’avevi nel 1950. Parlavi kikongo con tua madre da piccolo o non lo facevi. Giocavi a pallone alla missione o non ci giocavi. La memoria non colora tutto con la stessa velocità. Le piccole cose della vita conservano più a lungo il loro colore.

Volevo dunque intervistare congolesi comuni sulla vita comune, anche se non mi piace la parola “comune”, perché spesso le storie che sentivo erano veramente eccezionali. Il tempo è una macchina che trita vite, l’ho imparato scrivendo questo libro, ma capita anche che siano le persone a tritare il tempo.
Di nuovo: come ho cominciato? Speravo di poter parlare qua e là con qualcuno che avesse ancora ricordi nitidi degli ultimi anni dell’epoca coloniale. Mi ero convinto che, per il periodo antecedente alla Seconda guerra mondiale, ci fossero ancora a malapena dei testimoni. Ero già molto contento se trovavo una fonte di una certa età capace di darmi informazioni sui genitori o i nonni nell’epoca tra le due guerre. Per i periodi precedenti avrei dovuto orientarmi con la bussola tremolante delle fonti scritte. Tuttavia mi ci è voluto un po’ per rendermi conto che l’aspettativa di vita media nel Congo oggi è molto bassa non perché ci sono pochi anziani, ma perché muoiono tantissimi bambini. È la tremenda mortalità infantile ad abbassare la media. Nel corso dei miei dieci viaggi in Congo non ho faticato a incontrare persone di settanta, ottanta, persino novant’anni. Una volta un uomo vecchio e cieco, quasi novantenne, mi ha raccontato molti particolari sulla vita condotta dal padre, facendomi immergere indirettamente negli anni novanta dell’Ottocento, in una profondità vertiginosa. Ma non era niente in confronto a quello che mi ha raccontato Nkasi.

Vista dall’alto, Kinshasa somiglia a una termite regina, mostruosamente gonfiata, fremente di agitazione, sempre indaffarata, in continua crescita. In un’afa opprimente, la città si estende lungo la riva sinistra del fiume. Sull’altra sponda si trova la sua sorella gemella, Brazzaville, più piccola, più fresca, più scintillante. Le torri degli uffici hanno facciate di vetri. Questo è l’unico posto al mondo in cui due capitali possono guardarsi, ma specchiandosi Kinshasa vede in Brazzaville il riflesso della propria miseria.
La tavolozza di Kinshasa è varia, non ci sono però i pigmenti sgargianti di altre città inondate dal sole. Non vedi mai i colori saturi di Casablanca, né quelli caldi dell’Avana, mai le tinte rosso intenso di Benares. A Kinshasa ogni passata di pittura sbiadisce così velocemente che nessuno sembra più curarsene: i colori stinti sono diventati un’estetica. Dominano i pastelli, la nuance di cui andavano matti i missionari. Dalla più modesta merceria, dove puoi comprare del sapone o una ricarica telefonica, fino ai volumi esuberanti di una nuova chiesa pentecostale, tutti i muri sono dipinti immancabilmente di giallo sbiadito, verde sbiadito o blu sbiadito. Come se le luci al neon restassero accese anche di giorno. Le cassette di Coca-Cola ammassate in grandi fortificazioni nel cortile della fabbrica di birra Bralima non sono rosso scarlatto ma rosso spento. Le camicie dei vigili non sono di un giallo sgargiante ma color urina. E la luce del sole bruciante rende piuttosto smorti persino i colori della bandiera nazionale.
No, Kinshasa non è una città variopinta. La terra lì non è rossa, come altrove in Africa, ma nera. Dietro una passata di vernici pastello spuntano sempre muri grigi. Quando gli operai, lungo il boulevard Lumumba, mettono le pietre a seccare al sole, vedi una gamma di toni grigi: pietre bagnate grigio scuro accanto ad altre grigio topo, della durezza del cuoio, vicino a esemplari grigio cenere. L’unico colore che si distingua davvero è il bianco della manioca essiccata, detta anche cassava, la pianta tuberosa che è alla base dell’alimentazione di gran parte dell’Africa Centrale. I catini di plastica con la farina macinata venduti da donne accovacciate brillano talmente da costringerle a chiudere gli occhi. Lì accanto ci sono radici di manioca, ceppi robusti di un bianco abbagliante che fanno pensare a zanne segate. Visti dall’alto, quei mucchi disordinati sembrano denti del sottosuolo messi a nudo, cattivi e spaventosi come quelli di un babbuino. Una smorfia. La dentatura storta di una città grigia. Ma bianca come la neve, questo sì. Un bianco impeccabile.
Se potessimo sfrecciare sopra questa città come un ibis vedremmo una scacchiera di tetti in lamiera ondulata arrugginiti, parcelle con fogliame verde scuro. E anche la grisaglia della cité, i quartieri popolari di Kinshasa che sembrano non finire mai. Volteggeremmo sopra zone con nomi plumbei come Makala, Bumbu e Ngiri Ngiri e planeremmo verso Kasavubu, uno dei più vecchi quartieri per les indigènes, come venivano chiamati i congolesi nel periodo coloniale. Vedremmo l’avenue Lubumbashi, un asse perpendicolare su cui si immette una quantità di stradine e di vicoli, che però non è mai stato asfaltato. È la stagione delle piogge, vi sono pozzanghere grandi come piscine. Persino il tassista più svelto qui si impantana. Il fango nero come l’inchiostro schizza via da sotto le gomme che stridono e imbratta le fiancate della sua Nissan o Mazda traballante ma appena lavata.
Ce lo lasceremmo alle spalle imprecante e fluttueremmo oltre verso l’avenue Faradje. Nel cortile interno del numero 66, al di là del muro con le schegge di vetro, al di là del portone di metallo nero, brilla qualcosa di bianco. Zoomiamo. Non si tratta né di manioca né di avorio, ma di plastica. Plastica dura, bianca, colata a pressione. È un vasino, con una graziosa bambina di un anno seduta sopra. La sua acconciatura è una piantagione di alberelli di palma tenuti insieme, vicino al cocuzzolo, da piccoli elastici gialli e rossi. Ha un vestito giallo a fiorellini drappeggiato intorno al suo sederino. Non ha mutandine giù alle caviglie, ma fa quello che fanno tutti i bambini di un anno del mondo che non capiscono perché deve esserci per forza quel vasino: piange in modo furioso e straziante.

L’ho vista seduta lì giovedì 6 novembre 2008. Si chiamava Keitsha. È stato un pomeriggio traumatico per lei. Dopo essere stata privata del piacere dell’evacuazione spontanea ha dovuto anche sorbirsi il peggior spettacolo della sua breve vita: la vista di un bianco, una cosa che lei associava solo alla sua Barbie logora e monca, stavolta invece il bianco era grande e grosso, vivo e con due gambe.
Keitsha sarebbe rimasta sul chi va là per tutto il pomeriggio. Mentre i familiari parlavano con quel singolare visitatore, dividendo con lui persino le banane e le noccioline, lei se ne restava a distanza di sicurezza, fissando per minuti interi la mano di quell’uomo che rovistava nel sacchetto scricchiolante in cerca di noccioline.
Per fortuna non ero venuto per lei, ma per il suo capostipite, Nkasi. Mi sono lasciato alle spalle il cortile interno con la bambina in lacrime e ho scostato un panno sottile. Era semibuio. Mentre gli occhi cercavano di abituarsi, sentivo il tetto gemere per il caldo. Lamiera ondulata, naturalmente. E muri di un blu sbiadito, come in qualunque altro posto. “Christ est dieu”, c’era scritto col gessetto. Là accanto qualcuno col carboncino aveva scarabocchiato alcuni numeri di cellulare. La casa come rubrica degli indirizzi, perché da anni ormai non ci si può più permettere la carta a Kinshasa.

Nkasi era seduto sul bordo del suo letto, il capo reclinato. Con le sue vecchie dita cercava di finire di abbottonarsi la camicia. Si era svegliato da poco. Mi sono avvicinato e l’ho salutato. Lui ha alzato gli occhi. Gli occhiali erano fissati alla testa con un piccolo elastico. Dietro le lenti spesse e graffiate in più punti ho scorto occhietti liquidi. Ha mollato la camicia e mi ha preso la mano con entrambe le sue. Quanta forza ancora in quelle dita!
Mundele,” biascicava, “mundele!” Il tono era commosso, come se non ci fossimo visti per anni. “Bianco.” La sua voce sembrava una ruota dentata lenta e arrugginita che si metteva lentamente in moto. Un belga nella sua casa… dopo tutti quegli anni…
Chi poteva mai immaginare che avrebbe vissuto un giorno così?
“Papa Nkasi,” ho detto rivolto alla penombra, “sono molto onorato di incontrarla.” Continuando a tenermi la mano mi ha fatto cenno di mettermi a sedere. Ho trovato una sedia da giardino di plastica. “Come sta?”
“Aaah,” ha gemuto da dietro le lenti, talmente graffiate che non si vedevano più gli occhi, “ho problemi con la mia demi-vieillesse.” Accanto al letto c’era una ciotolina con degli sputi, sul materasso lercio una peretta da clistere con la gomma consumata. Qua e là un pezzetto di carta stagnola di una medicina. Poi ha riso della sua battuta.
Ma a quanti anni equivaleva, allora, quella semivecchiaia? Di certo sembrava il congolese più anziano che avessi mai incontrato.
La risposta non si è fatta attendere a lungo. “Je suis né en millehuit cent quatre-vingt-deux.”
1882? Le date sono un concetto relativo in Congo. Mi è capitato di chiedere a una fonte in che data si fosse verificato un certo episodio e di essermi sentito rispondere: “Tanto tempo fa, sì, veramente tanto tempo fa, almeno sei anni, o no, aspetta, diciamo: un anno e mezzo”. Il mio desiderio di esporre un punto di vista congolese non si sarebbe mai realizzato: attribuisco troppa importanza alle date. E alcune fonti attribuivano più importanza al fatto di rispondere che a rispondere nel modo giusto. D’altro canto mi ha colpito la precisione con cui molti riuscivano a rievocare fatti della loro vita. Oltre all’anno, spesso sapevano indicare anche il mese e il giorno. “Mi trasferii a Kinshasa il 12 aprile 1963.” O ancora: “Il 24 marzo 1943 partì la nave”. Ciò mi ha insegnato a essere molto prudente con le date.
1882? Be’, stiamo parlando dell’epoca di Stanley, della fondazione dello Stato Libero del Congo, dei primi missionari, ancora prima della Conferenza di Berlino, la famosa riunione del 1885, durante la quale le potenze europee stabilirono il futuro dell’Africa. Mi trovavo davvero faccia a faccia con una persona che non solo aveva memoria del colonialismo, ma che per di più risaliva all’epoca precoloniale? Una persona nata lo stesso anno di James Joyce, Igor Stravinskij e Virginia Woolf? Si stentava a crederlo. Quell’uomo avrebbe dovuto avere 126 anni! Sarebbe stato non solo l’uomo più vecchio del mondo, ma al contempo una delle persone più longeve di tutti i tempi. In Congo, per giunta. Tre volte l’aspettativa di vita media del paese.
Perciò ho fatto come sempre: verifiche e controverifiche. Nel suo caso significava scavare nel passato un po’ alla volta, con una pazienza infinita. Qualche volta lo scavo procedeva con agilità, altre volte mi arenavo subito. Mai prima di allora avevo parlato con una storia così remota, mai prima di allora tutto mi era sembrato così fugace. Spesso non lo capivo, spesso lui cominciava una frase e si fermava a metà, con lo sguardo stupito di chi va a prendere qualcosa da un armadio ma poi d’un tratto non ricorda più cosa cercasse. Era una lotta contro l’oblio, ma Nkasi non dimenticava soltanto il passato, dimenticava anche la dimenticanza. I vuoti che si creavano si riempivano subito di nuovo. Non era consapevole di ciò che andava perduto. Io, al contrario, cercavo di svuotare d’acqua un transatlantico con un cucchiaio.
Alla fine sono arrivato alla conclusione che l’anno di nascita poteva essere giusto. Parlava di avvenimenti risalenti agli anni ottanta e novanta del diciannovesimo secolo che poteva conoscere soltanto per esperienza personale. Nkasi non aveva studiato, ma sapeva fatti storici ignoti ad altri congolesi anziani della stessa zona. Veniva dal Basso Congo, la regione tra Kinshasa e l’Oceano Atlantico, dove per prima si era fatta sentire la presenza occidentale. Se paragoniamo la cartina del Congo a un palloncino, allora il Basso Congo è il beccuccio che filtra ogni cosa. In tal modo potevo verificare i suoi ricordi sulla base di avvenimenti ben documentati. Lui parlava con grande precisione dei primi missionari, protestanti anglosassoni che si erano stabiliti nella sua regione e che, in effetti, avevano dato inizio alle conversioni intorno al 1880. Ha indicato nomi di missionari che, a una verifica, sono risultati arrivati nella regione negli anni novanta e presenti in una missione vicina a partire dal 1900. Mi ha raccontato di Simon Kimbangu, un uomo proveniente da un villaggio limitrofo, di cui sappiamo che nacque nel 1889 e che negli anni venti fondò una propria religione. E soprattutto mi ha raccontato di aver visto, da bambino, la costruzione della ferrovia tra Matadi e Kinshasa, realizzata tra il 1890 e il 1898. I lavori, nella sua zona, cominciarono nel 1895. “Allora avevo dodici, quindici anni,” mi ha detto.
“Papa Nkasi…”
Oui?” Ogni volta che gli rivolgevo la parola, alzava gli occhi alquanto confuso, quasi avesse dimenticato che c’era una visita. Non si sforzava affatto di convincermi della sua età avanzata. Ne era chiaramente meno impressionato di me, che riempivo un taccuino.
“Ma come fa poi a conoscere l’anno della sua nascita? Allora ancora non c’era uno stato civile, vero?”
“Me l’ha detto Joseph Zinga.”
“Chi?”
“Joseph Zinga. Il fratello più giovane di mio padre.” E ho sentito la storia dello zio, partito con un missionario di lingua inglese per la missione di Palabala e diventato catechista, quindi a conoscenza del calendario cristiano. “‘Mi ha detto che sono del 1882.”
“Ma allora ha conosciuto pure Stanley?” Non avrei mai immaginato, in vita mia, di porre quella domanda con la massima serietà.
Stanlei?” ha chiesto. Ha pronunciato il nome alla francese. “No, non l’ho mai visto, ma ne ho sentito parlare. Era arrivato prima a Lukunga e poi a Kintambo.” Quest’ordine coincideva in ogni caso con il viaggio che Stanley intraprese tra il 1879 e il 1884. “Lutunu l’ho conosciuto, uno dei suoi boy. Veniva da Gombe-Matadi, non lontano da noi. Non portava pantaloni.”
Il nome Lutunu mi diceva qualcosa. Mi ricordavo che era stato uno dei primi congolesi a diventare boy dei bianchi. Più tardi i colonizzatori l’avrebbero nominato capo indigeno. Ma visse fino agli anni cinquanta: Nkasi quindi avrebbe potuto incontrarlo anche molto più tardi. Ciò non valeva chiaramente per Simon Kimbangu.
“Kimbangu lo conoscevo già nell’Ottocento,” ha detto con enfasi. È stata l’unica volta, con l’eccezione per la data di nascita, in cui ha fatto riferimento al diciannovesimo secolo. I loro villaggi erano vicini. E lui ha aggiunto: “Avevamo più o meno la stessa età. Simon Kimbangu era superiore a me nel campo del pouvoir de Dieu, ma io avevo più anni”. Anche durante le visite successive, Nkasi ogni volta mi confermava di avere qualche anno in più di Kimbangu, l’uomo del 1889.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima Edizione in “Varia” settembre 2014