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  • Martedì 16 settembre 2014

Lampedusa da vicino

Un reportage mostra i barconi abbandonati, le spiagge turistiche e gli abitanti dell'isola dove tutti sono un po' migranti

di Andrea Ferrari

Cimitero di barche
(Andrea Ferrari – PEPE fotografia)
Cimitero di barche (Andrea Ferrari – PEPE fotografia)

Occorre raggiungere in volo Lampedusa per capire quanto sia “isola”, sola nella distesa del Mediterraneo. Poco più a nord una terra ancora meno estesa e completamente diversa: Linosa. A ovest uno scoglio, Lampione, il cui profilo si rivela quando il sole scompare alle sue spalle e offre l’illusione dell’Africa.

C’è stato un tempo, ed è stato lunghissimo, in cui uomini di ogni costa e secolo hanno raggiunto Lampedusa rispondendo a desideri espansionistici, istinti di conquista o più semplicemente necessità di ristoro: cibo, acqua e protezione per le notti di risposo. E così da sempre fino a pochi decenni fa Lampedusa è servita a chi aveva bisogno o voglia di qualcosa; ultimi a scomparire furono gli alberi, bruciati dal folle miraggio del carbone.

Ma ora tutto è cambiato: nemmeno da troppo tempo se si osserva con le lenti della storia, eppure sembra un’eternità. La Storia traccia parabole sulla Geografia, archi di tempo che intercettano terra, e qui da qualche anno sembrano essersi incontrati, formando un nodo indissolubile nella rete dell’umanità. La mappa fisica del pianeta dice che Lampedusa è Africa, quella politica la definisce Italia; chi fugge da persecuzioni, fame, morte certa, la interpreta come frontiera, come porta attraverso la cui cruna avere l’accesso a un nuovo continente, e forse a una vita nuova. Staino, meglio di altri, ha saputo esprimere il valore di quel forse in una vignetta terribilmente illuminante. Mimmo Paladino quell’idea di porta ha voluto renderla monumento.

A Lampedusa raccontano di aver visto gente baciare la sabbia, lo scoglio, il molo di questa ipotesi di Europa che ancora non ha saputo rispondere con un progetto condiviso a coloro che fuggono da un continente da cui fino a qualche decennio fa si era soltanto attinto: materie prime, risorse, forza lavoro, senza peraltro corrispondere in alcun modo all’esproprio. A Lampedusa chi riesce a raccontare parla con gli occhi lucidi, malvolentieri in molti casi. Vivere su un confine, su un brandello di terra in mezzo al mare diventato una delle frontiere del mondo, significa avere nella memoria troppe immagini, nelle orecchie troppe voci: quelle dei sopravvissuti, quelle dei concittadini disposti a fare i conti con l’emergenza e quelle di chi la offende, quelle dei politici accorsi su una nuova passerella e quella dei cacciatori di notizie, spesso travisate. A Lampedusa buona parte degli abitanti è consapevole di aver vissuto un incontro quotidiano con la storia, con una delle sfaccettatura del presente, forse la più drammatica. Qualcuno sostiene che il lampedusano stesso di fatto è un migrante, perché sono ancora troppe le questioni per cui si è costretti a prendere i bagagli e trasferirsi sull’isola più grande, ad Agrigento, più spesso a Palermo; a partire dal mettere al mondo un figlio. Ma c’è anche chi sostiene che invece è nella natura dell’uomo non poter voltare lo sguardo, almeno nei casi estremi. E qui i casi estremi non si sono certo fatti desiderare.

L’attualità di quest’isola è perfettamente riassunta dall’estremità sud di via Roma: su un lato il cantiere del Museo Storico delle Pelagie, di cui ancora non si conosce la data di una possibile inaugurazione. Sul lato opposto due vetrine recano nel mezzo un’insegna quadrata su cui c’è scritto: Archivio Storico Lampedusa. Da una parte uno spazio enorme, vuoto, rivolto al mare, chiuso; di fronte un piccolo negozio, praticamente sempre aperto, con documenti ordinatamente raccolti in ogni scaffale o mensola disponibile, e qualcuno sempre disposto a informare, a diffondere la conoscenza di ciò che non è più possibile vedere sull’isola e di ciò che ancora rimane.

Via Roma si conclude con una terrazza sul porto che offre la sintesi di tutto ciò che Lampedusa è ora, come una radiografia. Volgendo lo sguardo a ovest si coglie quanto l’isola sia ancora profondamente legata alla pesca grazie alla quale si sostengono, non senza difficoltà, un gran numero di pescherecci e dei loro equipaggi. Spesso all’orizzonte appare lo scheletro arancio della nave cisterna, presenza continua e vitale per l’isola dal momento che ad oggi non è ancora stato possibile dotarsi di acqua potabile, con tutto ciò che ne consegue. Il porto vecchio e il porto nuovo sono interrotti dal molo Favaloro, quasi in maniera simbolica: come se tra passato e futuro Lampedusa non potesse fare a meno di avere di fronte ogni giorno ciò che caratterizza un presente fatto di arrivi e partenze, più ancora che di navi da pesca, di mezzi della guardia costiera.

Un futuro possibile, che in parte è già presente, è sicuramente costituito dall’utilizzo del mare a scopi turistici, reso evidente dalla presenza di imbarcazioni adattate all’occorrenza, in parte anche per motivi comprensibili: il carburante qui è merce ancora più preziosa che altrove, dal momento che in nessun altro luogo raggiunge prezzi così alti, rendendo evidentemente molto più onerosa, e molto meno competitiva sul mercato, qualsiasi attività che non ne possa prescindere. E così perlomeno nei mesi “caldi” un ragguardevole numero di barche si trasforma, ospitando al suo interno teli mare e costumi coloratissimi indossati da gruppi eterogenei di persone che si regalano per un giorno un giro in barca dell’isola, in alcuni casi accompagnati da musica dal vivo, e comunque sempre rifocillati con grigliate a sorpresa: perché sarà il mare a decidere quali pesci finiranno nei loro piatti. Ma a Lampedusa anche il turista più scanzonato e desideroso di svago avrà sempre al suo ritorno in porto una visione impressionante nella sua verità: il cimitero di barche. Difficile immaginare qualcosa che più di questa presenza si caratterizzi come documento e monumento allo stesso tempo: è impossibile resistere alla necessità di avvicinarsi, e dopo qualche istante rimanere congelati sotto la luce secca, caldissima e bianca che avvolge questi scafi, che in maniera evidente recano su un fianco, a prua o altrove, i segni del momento in cui la navigazione ha iniziato a rendere ancora più vane le speranze di coloro che ci siamo abituati a chiamare “migranti”, nemmeno da troppo tempo.

A volte il vento fa vibrare questi legni, ormai asciuttissimi, in mezzo ai quali si scorgono ancora brandelli di salvagente, ciabatte, pantaloni, come se l’abbandono della nave fosse avvenuto da qualche istante. Sembra che una mano gigantesca abbia preso dal fondo del mare queste conchiglie della storia attuale, questi gusci improvvisati e traballanti per rimetterli in secca, per sbatterci davanti agli occhi qualcosa che a molti farebbe comodo dimenticare. Ed è proprio la memoria l’unica bandiera rimasta a chi fra i lampedusani si spende per evitare che un’ulteriore ingiustizia si sovrapponga a quelle già subite dalla parte più fragile dell’umanità. Esiste un museo delle migrazioni a pochi metri dal porto nuovo, curato da un’associazione che in italiano si chiamerebbe “a piedi scalzi”, nel quale sono raccolti oggetti di ogni genere, normali e sorprendenti: pagine di corano, scarpe, piccoli bracieri, musicassette, fotografie, quaderni, una bottiglia di plastica con un messaggio arrotolato al suo interno.

I bambini che sulle spiagge cercano conchiglie, vetrini colorati, pietre da collezionare spesso si imbattono in frammenti di ogni genere, recanti scritte dai caratteri morbidi, incomprensibili; dopo ogni mareggiata contro gli scogli arrivano ancora lunghe travi spezzate di legno colorato che da qualche tempo un falegname recupera e trasforma in croci, come a voler dire che le tragedie, e le preghiere, si assomigliano tutte. Molti pescatori non hanno voglia, non riescono a raccontare ciò che a volte capita di trovare nelle reti. Non occorre essere archeologi per cogliere dappertutto i segni che rimangono quando una moltitudine di persone affronta il mare a ogni costo aggrappandosi a un forse come unica possibilità di sopravvivenza. Spesso questo filtro diventa fuorviante al punto che ogni oggetto abbandonato a terra viene percepito come reperto, pezzo di una storia per molti versi ancora da scrivere.

Per questo e molti altri motivi qualcuno da tempo sull’isola chiede giustizia per tutti quei viaggi troppo fragili, chiede qualcosa in più di un presidio davanti alle coste, chiede che una volta per tutte quella storia, tutte quelle storie, possano finalmente essere scritte da chi le ha vissute. Perché a differenza del passato qui non si hanno vincitori, ma soltanto vinti.

Viene allora da pensare che Lampedusa, nella migliore delle ipotesi, abbia un destino al quale non possa più sottrarsi, l’unico su cui iniziare a costruire un percorso diverso: diventare contenitore di memorie, di esperienze, di vite vissute e disperse, per diffonderne la conoscenza innanzitutto. Molti lampedusani rimangono in contatto, prevalentemente tramite Facebook, con migranti incontrati, soccorsi, spesso accuditi. E frequentando i loro account è possibile iniziare a leggere una nuova storia, osservare una rete all’interno della quale si stanno raccogliendo esperienze e conoscenze che parevano impossibili anni fa, per banale che possa sembrare. L’uomo che ha salvato una ragazza eritrea pare ora essere un profondo conoscitore della storia dell’Eritrea stessa, e studia ciò che la vita gli ha impedito di conoscere prima; e non è certo il solo. Alcune associazioni hanno reso possibile la stesura della carta di Lampedusa, un documento che chiede innanzitutto di essere letto, poi possibilmente condiviso. Molte sono le iniziative di carattere sociale e culturale che qui si sono­ sviluppate negli ultimi tempi. Attualmente si sta organizzando il ritorno a Lampedusa per qualche giorno di chi il 3 ottobre scorso ha vissuto la tragedia in prima persona e ora vive in ogni parte d’Europa.

Forse un giorno Lampedusa sarà uno dei centri di incontro, di studio, di sviluppo di progetti condivisi in ambito sociale, antropologico a livello internazionale. E forse il museo delle migrazioni diventerà il centro attorno al quale radunare tutti coloro che operano sostanzialmente per un unico obiettivo: poter finalmente tacere e lasciare la parola a chi finora non l’ha ancora avuta.
O forse no, e non sarà sufficiente provare rammarico.