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  • Mercoledì 5 giugno 2013

Il colpo perfetto

Il libro di Niccolò Campriani, medaglia d'oro alle scorse Olimpiadi in uno sport in cui "non puoi pensare a due cose contemporaneamente"

LONDON, ENGLAND - AUGUST 06: Niccolo Campriani of Italy celebrates winning the Gold Medal in the Men's 50m Rifle 3 Positions Shooting Final on Day 10 of the London 2012 Olympic Games at the Royal Artillery Barracks on August 6, 2012 in London, England. (Photo by Lars Baron/Getty Images)
LONDON, ENGLAND - AUGUST 06: Niccolo Campriani of Italy celebrates winning the Gold Medal in the Men's 50m Rifle 3 Positions Shooting Final on Day 10 of the London 2012 Olympic Games at the Royal Artillery Barracks on August 6, 2012 in London, England. (Photo by Lars Baron/Getty Images)

Mondadori ha pubblicato Ricordati di dimenticare la paura di Niccolò Campriani, vincitore di una medaglia d’oro e di una d’argento alle Olimpiadi di Londra nel tiro a segno. Campriani racconta la sua carriera sportiva e la decisione, dopo la delusione alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, di lasciare l’Italia e trasferirsi negli Stati Uniti per un diverso tipo di allenamento e soprattutto di analisi per capire e superare la paura di fallire. Il libro è un’avvincente sintesi di storia sportiva e riflessioni su emozioni, meccanismi e discipline a cui l’atleta è sottoposto nel rapporto con la ricerca del risultato: in questo capitolo, Campriani scrive sulle vittorie in Coppa del mondo e ai Mondiali di Monaco nel 2010, e suo rapporto con lo psicologo Edward Etzel, che lo ha seguito negli Stati Uniti.

***

Mi dicono che ho fatto una finale perfetta. Io ho solo sentito che andava tutto bene, che era tutto giusto, che tutto quello che stavo facendo aveva un senso, una sua splendida pienezza. L’ultimo tiro in particolare è stato incredibile, a uno o due decimi di millimetro dalla perfezione matematica.
Qualcosa è cambiato, qui a fort Benning. Se ne accorgono persino i giornalisti. Il giorno dopo sul sito specializzato in tiro a segno c’è un titolo enorme: Campriani, l’incubo è finito. È vero. È proprio così. Più dell’oro in prone vinto in casa dei maestri americani, più della gioia di Petra e dei complimenti di Emmons, più della telefonata serale dei miei da Sesto, mi rendo conto che sono felice per aver vinto la sfida contro me stesso. Una sfida dove l’asticella era stata fissata – da Ed – parecchio in alto.

Quando rivedo il prof, gli racconto come sono andate le cose. Lui ascolta cercando di nascondere la gioia.
Il rapporto fra noi, nonostante i suoi tentativi di tenere le distanze, è andato crescendo in questi mesi, nutrito dalla mia ammirazione e dal suo rispetto per i miei sforzi. Non sono riuscito a trattenermi dal prendere informazioni. Ho chiesto di lui a Gino. E ho avuto risposte confuse. Era un grande tiratore, poi dopo quell’olimpiade vinta, di punto in bianco, ha impacchettato la sua attrezzatura da tiro, messo tutto in cantina e si è dedicato ad altro. Fine della sua carriera di tiratore. Nessuno ha mai capito i reali motivi di quella scelta. Si sa solo che, da quel giorno, Ed non ha mai più preso in mano una carabina: «Le chiavi del poligono le ho io e non me le ha mai chieste» mi ha detto Gino. Si è ritirato. E si è messo a dare una mano agli atleti del campus, con enorme profitto.
«Complimenti, sono molto fiero di te» mi dice Ed. E aggiunge: «Adesso che ti sono più chiare un po’ di cose, possiamo provare ad andare avanti». Crede molto nell’ipnosi, mi spiega, e pensa che ne potrei trarre parecchi vantaggi.
L’ipnosi è molto usata nello sport, specie in discipline come il tiro o il golf, in cui l’aspetto mentale è preminente rispetto a quello fisico. Si tratta di raggiungere uno stato di concentrazione assoluta e profondissima, nel quale affrontare i vari aspetti: si può visualizzare una gara passata per correggerla o futura per impostarla, un singolo tiro per deviarne la traiettoria, un momento preciso per capirlo meglio, si può lavorare sull’autostima, sulla capacità di controllare l’ansia.

Con Ed abbiamo deciso di andare a caccia del tiro perfetto. È un percorso da fare in due. Lui guida, io seguo. Mi fa accomodare sulla poltrona. Mi invita a rallentare il ritmo del respiro. Con calma mi concentro sul calore dei muscoli, uno alla volta, in un ordine ben preciso. Poi penso a una porta. La immagino in lieve penombra, di legno. La schiudo. Dietro ci sono cinque gradini. Ogni gradino un respiro. Lento e calmo. Fino al fondo della piccola scalinata dove c’è una stanza vuota, con dentro solo coscienza e calore. È un posto strano quello, un posto in cui ero già stato migliaia di volte in vita mia senza saperlo, quasi tutte le sere, qualche istante prima di dormire, e tutti i giorni passati al poligono, quando tirare era il mio mezzo di comunicazione con il resto del mondo, con babbo e mamma, con mio fratello e i miei amici.
Ero lì anche a fort Benning, durante la finale di prone. Lì c’è tutto, sono convinto che, se fosse utile e lo volessi cercare, ci troverei anche quel maledetto colpo di Pechino e la commessa della gioielleria. Ma non m’interessa. Non più. Quello che sto cercando qui dentro è altro. Il colpo perfetto. Il gesto automatico e incorruttibile. Assomiglia molto a quello di fort Benning. Lo descrivo a Ed. E lui lo descrive a me. Entrambi sappiamo fin troppo bene di cosa stiamo parlando. Dopo mezz’ora di ricerche e descrizioni ce l’ho davanti, plastico, in tutto il suo splendore. Come se fosse cinema. L’obiettivo è farlo diventare così familiare da poterlo riprodurre in qualunque momento.
E funziona. Lo sperimento a Belgrado dopo qualche settimana, un’altra tappa della coppa del mondo. Nella finale con la carabina ad aria compressa trovo uno di quei cinesi imbattibili che sparano come macchine. Non ci penso. Ho imparato a costruire dighe perfette, ormai. Non penso a vincere, penso solo a riprodurre quel «gesto» o, meglio, a fare in modo che quel gesto si riproduca da sé. E ci riesco. Vinco un altro oro.
Qualcosa è cambiato, sì. Ora ne ho le prove. La medaglia ha un altro peso. Hanno un altro peso i complimenti della squadra e la gioia dei miei. Più che orgoglio provo soddisfazione. È una differenza sostanziale. E, soprattutto, mi sento in pace con me stesso. Una pace interiore che percepisco distintamente adesso, dopo la gara, ma che, se ci penso, arriva da prima, da lontano, forse direttamente dalla casa colonica in campagna o dal poligono di Bibbiena.

Tornato al campus non vedo l’ora di parlarne con Ed. Soprattutto, vorrei parlargli di un dubbio che mi è venuto rileggendo il libro «dello zen» nei giorni prima della gara. A un tratto il filosofo tedesco, quindi occidentale e scettico per cultura e formazione, interroga il maestro giapponese. Gli pone una domanda acuta e, dal suo punto di vista, definitiva: «Se è come dice lei, se i colpi perfetti partono da soli, se l’assenza d’intenzione del tiratore è la condizione necessaria per eseguire il tiro, o meglio è la condizione perché il “tiro accada” e naturalmente colga il centro, allora in teoria si potrebbe tirare anche senza guardare il bersaglio, bendati, e colpire ugualmente il centro» dice il filosofo. Ma la sua provocazione si schianta contro la dimostrazione del maestro che, dopo averlo convocato di notte, accende una candela minuscola al centro della palestra e – il solo arco illuminato da quella flebile lucina – coglie per due volte il centro esatto del bersaglio posto in fondo alla sala, invisibile, immerso nel buio più totale.

«Secondo lei è vero?» chiedo a Ed.
Sorride.
«Tu che ne pensi?» mi fa.
«Non saprei, da come lo racconta…»
«Se ci pensi bene…»
«Be’, in linea teorica…»
«Cosa?»
«Non saprei, sinceramente.»
«Il maestro, prima di scoccare, accende una candela al centro della sala» mi fa osservare Ed.
«Sì, ma è una candela minuscola, non sufficiente a illuminare nulla, basta per incoccare la freccia, rischiara solo l’arco, il resto è al buio.»
«Non rischiara solo l’arco, rischiara anche l’arciere, soprattutto l’arciere.» Non capisco benissimo. Ma mi rendo conto che la sua risposta Ed me l’ha già data.
Infatti, cambia discorso. Mi consiglia un altro paio di libri, più specifici, psicologia dello sport, ipnosi.

Gli confido che sono un po’ preoccupato. fra qualche settimana, a Monaco, ci sono i Campionati mondiali. Sono piuttosto importanti perché assegneranno la prima «carta olimpica», cioè la possibilità di partecipare alle Olimpiadi di Londra. Insomma, ho paura che, al crescere dell’importanza dell’evento, diminuisca la mia capacità di controllo. Sono incerto sulla tenuta della diga che ho costruito in questi mesi. Ha retto bene alla prova delle gare di Coppa del mondo. Ma adesso che la partita comincia ad avere l’odore dei cinque cerchi temo che la cosa mi sfugga di nuovo. «Leggi quei libri, ricordati di dimenticare ciò che non ti è utile e vivi nel presente. Quella è l’unica cosa che puoi controllare, il presente. Tutto andrà bene, e a Monaco mangiati un canederlo anche per me.»
«Ricordati di dimenticare.» Penso spesso a quel film, Se mi lasci ti cancello, in cui dei signori entrano nella stanza di un ragazzo, di notte, mentre dorme e gli cancellano i ricordi. Così non soffrirà più al pensiero della ragazza con cui non poteva più stare. I ricordi che dovrebbero cancellare a me sono quelli di tutte le volte che mi hanno detto che la voglia di vincere sarebbe stata la mia arma in più. Tutte le volte che mi hanno fatto i complimenti per come so «trasformare la delusione per una sconfitta in rabbia agonistica», «per la capacità di pensare solamente alla vittoria e a nient’altro». Anni e anni di bugie, di equivoci, di gesti e parole pieni di buona fede, ma pur sempre sbagliati. Errori commessi da me per primo. E da tutti quelli che mi stavano intorno. Parenti, amici, allenatori. Un armamentario vecchio e pesante di cui mi devo liberare.
Arrivo a Monaco e dopo mezz’ora ho un’unica certezza. Devo astrarmi dal mio ambiente. Devo evitare di essere presente, di contaminarmi. ogni volta che riascolto certi discorsi, che vedo certi comportamenti, ricasco nell’equivoco.
Cerco di restare il più possibile lontano da tutto e da tutti. E mi costa molto, perché sono persone che amo e che, in ogni gesto e in ogni pensiero, manifestano affetto nei miei confronti. La più delusa da questo comportamento è Petra. Si aspettava qualcos’altro. Mi accusa di nuovo di essere distante. Che poi è proprio il mio obiettivo: essere distante. Provo a spiegarglielo. Lo accetta a fatica: anche lei è in gara e ha le stesse mie paure. Da fidanzato non avrei dubbi, l’ascolterei e proverei a tranquillizzarla. Ma da tiratore non posso. Non posso ascoltare l’eco delle mie stesse preoccupazioni, entrerei in «risonanza» e rischierei di esplodere.

La mia è la prima gara del programma. Arrivo di buon’ora e mi accorgo che il poligono è pieno di pezzi del mio passato. Ci sono tutti. C’è mio padre, Vigiani, ci sono molti ragazzi di Firenze, ovviamente c’è Petra. Va tutto bene. In passato, già solo queste presenze sarebbero bastate ad aumentare la pressione, a farmi sentire osservato. Invece adesso li guardo, seduti sugli spalti in attesa, e non percepisco altro che affetto e calore.
Respiro a fondo. Un colpo alla volta, mi dico. Un colpo alla volta. Chiudo bene la porta dello spogliatoio. Devo celebrare il mio piccolo rito. La vestizione. E voglio farlo in maniera perfetta. Mi siedo e chiudo gli occhi. Gioco con il mio cuore cercando di convincerlo a fermarsi del tutto. Apro la porta di legno, poi scendo i cinque scalini. Vorrei tentare di fare un po’ di ordine nella mia testa. Scelgo le sensazioni che voglio provare. Scarto tutte quelle negative e mi concentro sulle altre. Da fuori arriva qualche rumore e mi rendo conto che mi distrae più del dovuto. È lo stress. Ho la tentazione di preoccuparmi. Ripenso a Ed e al suo tormentone: «Ricordati di dimenticare». Apro gli occhi e mi alzo. Indosso la giacca e il guanto. Prendo la carabina. Mi metto davanti al muro con le maioliche bianche e comincio a mirare. Come se invece di quelle piastrelle ci fossero davanti metri cubi di aria e silenzio da forare con il mio proiettile. Passo un tempo indeterminato a fare questo gesto. Vista da fuori, la scena non deve essere granché: un ragazzo vestito come un fantino del palio di Siena che per cento, duecento volte alza e abbassa una carabina contro un muro a cinquanta centimetri di distanza. Ma non c’è nessuno a guardare. E nemmeno io ho l’esatta cognizione di ciò che sto facendo. Però percepisco che la mia concentrazione aumenta a ogni movimento. Quando mi vengono a chiamare è come se mi svegliassero da un sonno profondissimo. Ma mi sento pronto.

Ovviamente mi sbaglio. Non sono affatto pronto. Entro nella sala e ho la sensazione che tutta la concentrazione «caricata» negli spogliatoi con quella strana danza evapori in un instante. Guardo verso gli spalti, c’è Petra. Ci scambiamo un sorriso complice. Poi m’incammino verso la mia linea di tiro. Cerco di sciogliere un po’ i muscoli. Ma l’esercizio viene interrotto da qualcuno che mi chiama. «Ciao fratello!» È Emmons. C’è anche lui. Guarda le mie guance. Quando sono emozionato diventano rosso fuoco. Mi sorride. «Ti batte il cuore, eh?»
«Eh, parecchio.»
«Bene. Vuol dire che sei ancora vivo. Che è già un bel risultato.»
Rido.
«Dài, non ti preoccupare» mi fa. «Vedrai che andrà bene!» Annuisco. Lo saluto e ricomincio i miei esercizi di rilassamento. Mi devo solo ricordare di dimenticare. Niente di più. La teoria è semplice: puoi pensare a una sola cosa alla volta, basta scegliere quella cosa e il gioco è fatto. E io penso solo e soltanto a sparare bene.

Cosa che mi riesce. Sparo tranquillo, senza pensieri o pesi. Senza distrazioni. Almeno fino a quando dal pubblico, cinque metri dietro di me, non arriva il solito brusio. Sento la diga scricchiolare sotto la pressione di pensieri diversi da quelli che io avevo scelto. Guardo il monitor. Mancano cinque colpi. Cinque colpi e sono in finale a giocarmi le prossime Olimpiadi, la mia rivincita. Già, la rivincita di Pechino. Cioè proprio quello a cui non devo pensare in questo momento.
Provo a concentrarmi sul mio respiro. Visualizzo il flusso d’aria che entra ed esce dai polmoni e mi impongo di tenere fuori Pechino dalla testa. Non so se avete mai provato a non pensare a qualcosa di preciso: sforzatevi di «non pensare» a un elefante giallo e vedrete che vi verrà automatico visualizzare un elefante giallo. È una lotta. E bisogna essere molto forti. Cerco il centro del bersaglio dentro il mirino. Lo vedo, è lì e balla al ritmo del mio cuore, che è impazzito. Ci manca solo che adesso dica a me stesso che non ho niente da perdere e il déjà vu è completo. Ho la tentazione di sparare, di aspettare che il centro del bersaglio passi di nuovo nel mirino e tirare il grilletto. Ma sarebbe sciocco. E, soprattutto, non sarebbe quello che «voglio». Abbasso la carabina. Devo riprendere il controllo. Respiro a occhi chiusi. Mi riconcentro. E, proprio come prima, nello spogliatoio, torno a mirare davanti a me. Daccapo. Pechino è sempre dietro l’angolo. E non va bene. Non me ne frega niente se ho qualcosa da vincere o da perdere. Quando questa gara sarà finita vorrò essere certo di aver fatto tutto quello che dovevo.

Abbasso di nuovo la carabina. Mi maledico. Sapevo che all’alzarsi della posta in gioco le cose si sarebbero complicate. Ma non pensavo tanto. Non pensavo di essere così fragile. Altro che maestro zen, altro che filosofi, questa è una guerra di trincea. E la verità è che la posta in palio è molto più alta di un pass per le Olimpiadi. Questo pensiero, paradossalmente, mi tranquillizza. Decido di provare per la terza volta. Alzo la carabina verso il bersaglio e stavolta succede qualcosa di diverso dalle precedenti: il tempo collassa. Non so per quanti secondi sono rimasto in posizione di tiro, so che mi stupisco di quanto sia leggera la carabina e di come il colpo parta da solo verso un 10 bellissimo, come direbbe Petra.
Il pubblico applaude. Io mi lascio andare a un’esultanza scomposta. Alzo il pugno. È ridicolo, in realtà. Sono solo in finale, non ho vinto niente. Ma non importa. Per me è un trionfo. La finale, fra poche ore, sarà solo un’altra serie di colpi da sparare nel miglior modo possibile. Nulla di più. Così mi dico. Proprio così. Ed sarebbe orgoglioso di me.
Oggi, qui, si assegnano i primi pass olimpici. Gli atleti di tutte le altre nazioni e sport arriveranno dopo. Questo è, nei fatti, il primo evento olimpico di Londra 2012. Dovrei essere un grandissimo attore per convincere qualcuno che non desidero disperatamente andare a Londra. Altro che «sparare senza intenzione».

La finale è difficilissima. Tra i favoriti c’è Peter Sidi, un ragazzo ungherese noto al mondo per essere un pazzo totale. Il giorno prima delle gare ha bisogno di violente scariche di adrenalina. E quindi, dovunque sia, cerca cose improbabili da fare, tipo il bungee jumping o lo skydiving. Però, ha un modo abbastanza arrogante di comportarsi e a me non va molto a genio. L’altro grande favorito è Emmons. Poi ci sono anch’io.
Prima di disporci in pedana, io e Matt ci facciamo un in bocca al lupo carico di complicità. Mi giro verso il pubblico un ultimo istante prima di cominciare la mia lotta contro me stesso e vedo che Petra è vicino alla moglie di Matt e si tengono per mano. Non riesco a non sorridere. Poi mi volto.
La guerra comincia.
Ho deciso di provare a non usare l’aggressività, come mi avevano insegnato da ragazzino, ma la disciplina. Prima regola: decido io quali pensieri lasciar entrare nella mia testa. Seconda regola: non sparo se non ho la certezza che il colpo sia perfetto. L’idea di base, semplice e complessa insieme, è che non puoi pensare a due cose contemporaneamente. Se pensi a quella giusta è fatta. Il metodo sembra funzionare. Ho pensieri così leggeri ed estemporanei che non saprei nemmeno dire quali siano. Ogni gesto succede all’altro con una naturalezza sconosciuta.

Al contrario di quanto mi ero ripromesso, so perfettamente in quale momento della gara mi trovo. So che sono sul podio insieme a Sidi e a Emmons, so che abbiamo creato il vuoto dietro di noi e so perfettamente, ora, di dover sparare l’ultimo colpo, un colpo che vale il Mondiale e, insieme, la mia chance olimpica. Potrei pensare a Pechino, al babbo e alle sue Muratti, a Petra dolce che adesso stringe la mano di Katerina e forse prega, a Vigiani e alle sue speranze. E invece penso soltanto a fare quello che devo, un gesto perfetto che libera il proiettile verso il suo destino, e verso me stesso. Sparo. Non devo guardare il bersaglio e nemmeno la classifica. So che è andata come doveva andare.
Ho vinto. Campione del mondo.
Mi volto verso il pubblico. Non ho più un grammo di energia nervosa. Non riesco nemmeno a festeggiare. Resto immobile per alcuni secondi fino a quando lo speaker non legge l’ordine del podio. Quella voce mi risveglia. Sono curioso di sapere com’è andato Emmons. In realtà, non c’è bisogno di sentire lo speaker. Mi basta guardare gli occhi di Katerina. L’emozione l’ha tradito di nuovo, non è andato oltre l’8. È settimo, rischia di non qualificarsi per le Olimpiadi.

(Lars Baron/Getty Images)