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  • Lunedì 13 maggio 2013

È così che la perdi

Il nuovo libro di racconti di Junot Diaz, lo scrittore che ha vinto il Pulitzer con il suo primo romanzo La breve favolosa vita di Oscar Wao

Mondadori ha appena pubblicato in Italia, tradotto da Silvia Pareschi, È così che la perdi, il nuovo libro di Junot Diaz, lo scrittore dominicano naturalizzato statunitense che ha vinto il premio Pulitzer nel 2008 per il suo romanzo La breve favolosa vita di Oscar Wao. Diaz ha 44 anni e insegna e vive a Boston. È così che la perdi è una raccolta di racconti intorno al tema dell’infedeltà sentimentale con un protagonista ricorrente, uscita negli Stati Uniti nel settembre 2012. Questo è l’incipit del primo, “Il sole, la luna, le stelle”.

Non sono un cattivo ragazzo. So che dicendolo sembro un po’ paraculo, però è vero. Sono uguale agli altri: debole, pieno di magagne, ma tutto sommato buono. Eppure Magdalena non è d’accordo. Mi considera un tipico uomo dominicano: un sucio, uno stronzo. Vedete, molti mesi fa, quando Magda era ancora la mia ragazza, quando ancora non dovevo stare attento praticamente a tutto, le ho messo le corna con questa tipa che aveva una gran testa di capelli anni Ottanta. A Magda non l’ho detto. Sapete com’è. Un osso così puzzolente è meglio seppellirlo nel giardino sul retro della vostra vita. Magda l’ha scoperto solo perché l’amica le ha scritto una cazzo di lettera. Con tanto di dettagli. Roba che non racconteresti neanche ai tuoi amici quando sei sbronzo.
Il fatto è che quella particolare stupidaggine era ormai finita da mesi. Io e Magda eravamo in ripresa. Non eravamo più lontani come nell’inverno in cui la tradivo. Il gelo si era sciolto. Magda veniva a casa mia, e invece di passare il tempo con quei rimbambiti dei miei amici – io a fumare, lei ad ammazzarsi di noia – ci guardavamo un film. Andavamo in giro per ristoranti. Abbiamo addirittura beccato uno spettacolo al Crossroads, dove l’ho fotografata insieme a qualche importante drammaturgo nero; in quelle foto sorride tanto che la sua bocca larga sembra sul punto di scardinarsi. Eravamo di nuovo una coppia. Nel fine settimana andavamo a trovare le reciproche famiglie. Facevamo colazione al diner quando tutti dormivano ancora, rovistavamo insieme nella biblioteca di New Brunswick, quella che Carnegie finanziò per lenire i suoi sensi di colpa. Avevamo preso un buon ritmo. Ma poi la Lettera ci piomba addosso come una bomba di Star Trek e distrugge tutto, passato, presente, futuro. D’un tratto i suoi vogliono uccidermi. Non importa se li ho aiutati con la dichiarazione dei redditi per due anni di fila, o se gli taglio l’erba del giardino. Suo padre, che prima mi trattava come un hijo, adesso mi chiama stronzo al telefono, con una voce che sembra si stia strozzando con il filo. Tu no meriti che ti parlo in spagnolo, dice. Incontro un’amica di Magda al centro commerciale di Woodbridge – Claribel, l’ecuadoriana con la laurea in biologia e gli occhi da chinita – e lei mi tratta come se avessi divorato il figlio prediletto di qualcuno.
Non è neanche il caso che vi dica come l’ha presa Magda. Come una collisione fra cinque treni. Mi ha buttato addosso la lettera di Cassandra – che mi ha mancato ed è finita sotto una Volvo – e poi si è seduta sul bordo del marciapiede con un attacco di iperventilazione. Oh Dio, gemeva. Oh mio Dio.
Secondo i miei amici, quello era il momento di sfoderare la Cazzutissima Negazione Totale. Cassandra chi? Ero troppo nauseato anche solo per provarci. Mi sono seduto vicino a lei, le ho bloccato le braccia che agitava scompostamente e ho detto qualche stronzata tipo: Devi ascoltarmi, Magda. Altrimenti non capirai.

Lasciate che vi parli di Magda. È la tipica ragazza di Bergenline Avenue: bassa, con la bocca larga, i fianchi larghi e una massa di riccioli scuri in cui potresti perdere una mano. Suo padre fa il panettiere, sua madre vende abbigliamento per bambini porta a porta. Non si fa trattare da pendeja, ma è anche un’anima misericordiosa. Una cattolica. La domenica mi trascinava sempre in chiesa per la messa spagnola, e quando si ammala un suo parente, soprattutto uno di quelli che vivono a Cuba, Magda scrive a certe suore della Pennsylvania perché preghino per la sua famiglia. Magda è la nerd che tutti i bibliotecari della città conoscono, un’insegnante amata dai suoi studenti. Mi ritaglia sempre roba dai giornali, roba dominicana. Ci vediamo, tipo, tutte le settimane, eppure continua a spedirmi bigliettini sdolcinati: Così non ti dimenticherai di me. È l’ultima persona al mondo che vorresti fregare.

Comunque non vi annoierò con quello che è successo quando Magda l’ha scoperto. Le suppliche, i pianti, le promesse drammatiche. Diciamo solo che dopo due settimane di continue visite a casa sua, di lettere e telefonate a tutte le ore della notte, ci siamo rimessi insieme. Questo non vuol dire che io abbia ricominciato a mangiare con la sua famiglia, o che le sue amiche abbiano festeggiato. Quelle cabronas continuavano a ripeterle: No, jamás, mai. All’inizio neppure Magda era molto entusiasta del riavvicinamento, ma io avevo il passato dalla mia parte. Quando mi ha chiesto: Perché non mi lasci in pace?, io le ho detto la verità: Perché ti amo, mami. Vi sembrerà una stupidata, ma è vero: Magda è il mio tesoro. Non volevo che mi lasciasse; non avevo intenzione di cercarmi un’altra ragazza solo perché avevo combinato quell’unica cazzata.
Non crediate che sia stata una passeggiata, perché non è così. Magda è testarda; all’inizio della nostra storia mi disse che sarebbe venuta a letto con me solo dopo un mese, e l’amica tenne duro, malgrado provassi sempre a entrarle nelle mutande. Ed è anche sensibile. Assorbe le offese come la carta assorbe l’acqua. Non potete immaginare quante volte mi ha chiesto (soprattutto appena finito di scopare): Me lo avresti detto, prima o poi? Era la sua domanda preferita, insieme a: Perché? La mia risposta preferita era: Sì. E anche: È stato uno stupido errore. Ho agito senza pensare.
Ogni tanto parlavamo anche di Cassandra: in genere al buio, quando non potevamo vederci. Magda mi chiedeva se avevo amato Cassandra, e io le rispondevo di no. Pensi ancora a lei? No. Ti piaceva scopare con lei? Era tremendo, tesoro, te lo assicuro. Questo non è mai molto credibile, ma devi dirlo comunque, per quanto stupido e inverosimile possa sembrare: dillo e basta.
E per un po’ di tempo, dopo che ci siamo rimessi insieme, è andato tutto per il meglio.
Ma solo per un pochino. Piano piano, in modo quasi impercettibile, la mia Magda ha cominciato a trasformarsi in un’altra Magda. Che non aveva più tanta voglia di dormire da me, né di grattarmi la schiena quando glielo chiedevo. Sono incredibili le cose che ti saltano all’occhio. Tipo che prima non mi diceva mai di richiamarla quando era al telefono con qualcun altro. Io venivo sempre per primo. Ora non più. Naturalmente davo tutta la colpa alle sue amiche, che, lo sapevo per certo, continuavano a tagliarmi i panni addosso.
Magda non era l’unica ad avere consulenti. I miei amici mi suggerivano: Mandala a fare in culo, quella stronza, lasciala perdere; ma per quanto tentassi non ci riuscivo. Ero davvero cotto di lei. Allora ho ricominciato a sbattermi per riconquistarla, ma non c’era niente che funzionasse. Andavamo al cinema, facevamo giri in macchina di notte, dormivamo a casa mia: ogni volta sembrava che si confermasse qualcosa di negativo su di me. Era come se stessi morendo piano piano, ma quando gliene ho parlato, Magda mi ha risposto che ero paranoico.
Dopo circa un mese ho cominciato a notare i classici cambiamenti che preoccupano i negri paranoici. Si taglia i capelli, spende di più per il trucco, sfoggia vestiti nuovi, esce a ballare con le amiche il venerdì sera. Quando le chiedo se possiamo vederci, non sono più sicuro che accetterà. Molte volte risponde come Bartleby: Preferirei di no. Le chiedo cosa diavolo crede di fare, e lei dice: È quello che sto cercando di capire.
Io lo so cosa stava facendo. Mi informava della posizione precaria che occupavo nella sua vita. Come se non me ne fossi già accorto.

E poi è arrivato giugno. Nuvole bianche di caldo arenate nel cielo, macchine innaffiate con la canna, musica permessa all’aperto. Tutti si preparavano per l’estate, noi compresi. All’inizio dell’anno avevamo programmato un viaggio a Santo Domingo, un regalo di anniversario, e dovevamo decidere se volevamo ancora andarci oppure no. La questione era all’orizzonte già da un po’, ma pensavo che si risolvesse da sola. Vedendo che non si risolveva, ho tirato fuori i biglietti e le ho chiesto: Cosa ne pensi?
Che è un impegno troppo grande.
C’è di peggio. È una vacanza, Cristo santo.
La sento come una costrizione.
Non deve essere una costrizione.
Non so perché ero così fissato. Tornavo sull’argomento ogni giorno, insistendo perché si decidesse. Forse mi stavo stancando di quella situazione. Volevo forzare le cose, volevo che qualcosa cambiasse. O forse mi ero messo in testa che se lei avesse detto: Sì, andiamo, allora tutto avrebbe ripreso a funzionare. Se invece avesse detto: No, non fa per me, almeno avrei capito che era finita.
Le sue amiche, le più tristi sfigate del pianeta, le consigliavano di fare quel viaggio e poi non rivolgermi più la parola. Lei me lo ha raccontato, naturalmente, perché non poteva fare a meno di dirmi tutto quello che le passava per la testa. E tu cosa ne pensi?, le ho chiesto.
Lei ha alzato le spalle. È un’idea.
Anche i miei amici mi dicevano: Negro, vuoi buttar via un sacco di grano per una stronzata; ma io ero davvero convinto che ci avrebbe fatto bene. Sotto sotto, dove i miei amici non mi conoscono, sono un ottimista. Pensavo: io e lei sull’Isola. Esiste forse una cura migliore?

Lasciate che ve lo confessi: adoro Santo Domingo. Adoro tornare a casa dai ragazzi in blazer che cercano sempre di mettermi in mano un bicchierino di Brugal. Adoro il momento dell’atterraggio, quando le ruote baciano la pista e tutti applaudono. Adoro il fatto di essere l’unico negro a bordo senza un catenone al collo o un intero portacipria spalmato sulla faccia. Adoro la rossa venuta a incontrare la figlia che non vede da undici anni. Tiene i regali in grembo come le ossa di un santo. A m’ija sono cresciute le tetas, sussurra alla vicina. L’ultima volta che l’ho vista parlava appena. Adesso è una donna. Imagínate. Adoro le borse che prepara mia madre, roba per i parenti e qualcosa per Magda, un regalo. Tu daglielo, comunque vada.
Se questa fosse un’altra storia, vi parlerei del mare. Di quando viene spinto nel cielo dallo sfiatatoio di una balena. Di quando arrivo dall’aeroporto e lo vedo così, come argento sminuzzato, e capisco che sono tornato per davvero. Vi direi quanti poveri bastardi ci sono. Più albini, più negri strabici, più tígueres di quanti ne vedrete mai. E vi parlerei del traffico: l’intera storia automobilistica del tardo ventesimo secolo accalcata su ogni striscia di terreno piano, una cosmologia di macchine scassate, moto scassate, camion scassati e autobus scassati, e un ugual numero di autofficine gestite da qualunque idiota che possieda una chiave inglese. Vi parlerei delle baracche e dei rubinetti senz’acqua, degli zambo sui cartelloni pubblicitari e della latrina sempre affidabile della mia casa di famiglia. Vi parlerei del mio abuelo e delle sue mani da contadino, del suo dispiacere per la mia assenza, e vi parlerei della via dove sono nato, Calle XXI, che non ha ancora deciso se vuole diventare uno slum oppure no, e si trova in questo stato di indecisione da anni.
Ma così diventerebbe un’altra storia, e io ho già fin troppi problemi con questa. Dovrete credermi sulla parola. Santo Domingo è Santo Domingo. Facciamo finta che sappiamo tutti cosa succede laggiù.

(C) 2012 by Junot Diaz
(C) 2013 Arnoldo Mondadori Editore
Titolo dell’opera originale: This Is How You Lose Her