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  • Giovedì 25 aprile 2013

Le madeleines di Giacomo Papi

Inventario sentimentale, il nuovo libro in ricordo di cose che non sono più quelle di una volta (dai matti nei paesi, al corredo, al tacco 3)

di Giacomo Papi

Al fruttivendolo piace fare conversazione mentre pesa i pomodori: «Ha notato che i ragazzini non portano più le scarpe con i lacci? Poi, sfido che non sanno allacciarsele». L’edicolante è turbato dalla scomparsa del portapacchi: «Secondo lei è perché abbiamo meno bagagli o bagagliai più grandi?». Il dentista, trapanando il terzo molare superiore sinistro, sospira: «Ma lo sa che io le rimpiango, le otturazioni d’oro?».

Per tre anni ho scritto su D di Repubblica una rubrica intitolata Cose che non vanno più di moda (questo libro nasce così). Per tre anni ho ricevuto consigli, a voce e per lettera, via sms e per email. Posta pneumatica e sciolina, autostop e idrolitina, giornaletti porno e orologi a cucù: non c’è stato gesto, abitudine e oggetto scomparso o in via di estinzione di cui qualcuno non mi abbia pregato di scrivere. Avevo deciso di rivangare il passato, non di provocare un tumulto emotivo. Ma il rimpianto è una specie di droga, dà dipendenza. Se qualcuno, ispirandosi agli Alcolisti, fondasse la Nostalgici anonimi, sarebbe sommerso di richieste perché molti sarebbero entusiasti di sottoporsi a sedute di terapia di gruppo per imparare ad accettare la scomparsa delle cose.
«Buongiorno, mi chiamo Pietro, ho 72 anni, lavoravo in pubblicità».
Coro: «Ciao, Pietro, benvenuto».
Pietro (spiegando con le dita un foglio a quadretti): «Mi sono appuntato un po’ di cose di cui sento la mancanza: gli scaldini, gli stradini, le stilografiche, i risultati delle partite scritti fuori dai bar, le radioline di domenica, le terze visioni, l’avanspettacolo prima del film e la nebbia, soprattutto la nebbia».
Applausi di incoraggiamento.
Antonio: «Ciao a tutti, io sono Antonio, ho 60 anni».
Coro: «Ciao, Antonio. Grazie di essere venuto».
Antonio: «Sono qui per parlarvi delle cartoline illustrate e della carta carbone. Erano importanti una volta, sembravano eterne, indispensabili, invece poi sono sparite e nessuno se n’è accorto. Alcune cose scompaiono, altre sopravvivono in segreto. L’altro giorno sono entrato in un negozio di Milano, il Grissinificio Edelweiss, e per me è stato come riprecipitare negli anni Sessanta: avevano solo tre modelli di grissino, bianchi, dorati e bruciacchiati. Non vendevano nient’altro. Ci pensate?».
Risate in sala.
Mariella: «Io sono Mariella, ho 50 anni, faccio la maestra d’asilo. Vent’anni fa se raccontavo una favola in classe, i bambini stavano zitti e attenti. Adesso si distraggono subito. Forse hanno troppi stimoli. Riescono a seguire molte cose insieme, ma con una soltanto si annoiano».
Le teste annuiscono, come nel nuoto sincronizzato.
Rossana: «Mi chiamo Rossana, ho 41 anni, lavoro in tv. Ho notato che sono spariti i rullini, i negozi di sviluppo e stampa, gli album fotografici e le diapositive. Ho pensato che i ricordi futuri avranno una forma diversa».
Marta: «Sono Marta, 32 anni, giornalista. Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché le mani delle donne sono cambiate. In giro si vedono unghie lunghe, finte, leopardate, a strisce, a pois, a stelline. Manicure pazzesche, lavori da artista. Sono anche comparsi negozi specializzati. Io adoro mangiarmi le unghie. Mi devo sentire in colpa?».
Gianmaria: «Buonasera, ho 23 anni, mi sono laureato da poco. A parte qualche vecchio decrepito, nessuno racconta più barzellette. Alcune mi facevano ridere».
Chiara: «Ciao, sono Chiara, 17 anni. Perché Mtv non fa più i video a rotazione?».
Simone: «Ho 12 anni, mi chiamo Simone. Mi pare che alle elementari mi divertivo di più».
Coro: «Ooooooohhhhhh!».

La nostalgia si riavvolge all’indietro e non fa distinzioni: riguarda tutti e ogni cosa. È un rimpianto democratico e universale che non dipende dall’età (anche i neonati forse rimpiangono il buio caldo del ventre), non è in relazione con il valore degli oggetti perduti (si prova nostalgia anche delle cose banali, anzi soprattutto di queste) né con la loro genuinità. La nostalgia è un atto culturale. La memoria di chi è nato nel Novecento è impregnata di aromi sintetici. È memoria industriale. Il passato è un inventario sentimentale e artificiale, che il rimpianto fa sembrare autentico e, dunque, naturale. Ma se Marcel Proust uscisse dalla tomba per aggiornare la Recherche e andasse in giro a chiedere quali siano le nuove madeleines – i sapori e gli odori in grado di suscitare la memoria involontaria e resuscitare l’infanzia – nessuno gli parlerebbe di uova sbattute, pane burro e zucchero, torte della nonna e marmellate della zia.
Molti ricorderebbero odori e sapori di merci prodotte in serie, di consumi di massa. Citerebbero la colla coccoina che a scuola assaggiavano in tanti, l’alcol denaturato e la naftalina negli armadi, le figurine, i giornali appena stampati, il grasso delle catene delle bici, il pallone Super Tele Rigonfiabile e la sensazione polverosa del gesso nelle narici e sulle dita quando si andava alla lavagna. Le nostre madeleines sono lucidalabbra alla fragola, shampi alla mela verde e borotalchi. Sono i bagnoschiuma improbabili con cui ci lavavano quando eravamo bambini. E lo stesso – per passare dal naso alla lingua – avverrebbe con i sapori. Il nostro passato è imbottigliato nel gusto dolciastro dei francobolli che i grandi a volte ci facevano leccare; in bicchieri di orzata, lattementa e tamarindo; spuma, gassosa e sanguinella; in caldarroste, zucchero filato e latte condensato. È imprigionato dentro le caramelle Rossana, Charms e Sanagola, nelle galatine quadrate che adesso sono diventate tonde, dentro la Manna, la Terra Cattù e la Citrosodina; nei biscotti Hurrà Saiwa, nei Buondì e nelle Girelle Motta, che a giudicare dal numero di menzioni rappresentano, forse, le nostre vere madeleinettes. La memoria involontaria dei contemporanei riaffiora grazie a odori e sapori chimici, pieni di conservanti e coloranti, a dimostrazione che la natura è un mito sempre, e a causa della pubblicità e del mercato ancora di più. Perché dentro il Mulino Bianco andavano a bucarsi i tossici. Natura è il nome che diamo al passato quando ci manca.

Rispetto a un secolo fa, il tempo perduto si vive di meno, con meno intensità, ma si guarda e ascolta infinitamente di più. Ogni gesto lascia una traccia elettronica e rimane a disposizione per sempre. Marcel Proust, oggi, non si staccherebbe più da YouTube. Ogni istante viene fotografato, filmato e reso pubblico, inseguendo il sogno della registrazione e dell’archiviazione assoluta. A metterlo in atto non è tanto il potere politico, giudiziario o pubblicitario, per quanto lo faccia. Sono le persone stesse che sentono il bisogno di trasformare la propria esistenza in una sfilata di istanti memorabili, e rievocabili, da immortalare con il telefonino e sottoporre agli sguardi altrui. L’invadenza del presente, il ritmo e l’intensità con cui notizie e novità si susseguono e dimenticano, producono per contrasto il terrore collettivo che qualcosa vada perduto. Nessuna epoca ha mai accumulato tanti documenti e il passato non è mai stato tanto sterminato, ma dimenticarlo non ha mai fatto tanta paura.

Schiacciato tra un presente incalzante e invadente, e un passato obeso e ingombrante, il futuro si assottiglia fino a scomparire. Non è più all’orizzonte. Per questo, oggi, è molto più naturale provare nostalgia che avere speranza. Riflettere sul passato diventa, cioè, l’unica possibilità di orientarsi e avere uno sguardo più ampio del presente, l’unico modo di immaginare il futuro. La nostalgia è anche una strada che non ha nulla di nostalgico. Individuare quello che non c’è più è un modo per capire che cosa abbia preso il suo posto e riconoscere ciò che è accaduto di nuovo, nel bene e nel male. La nostalgia è, cioè, prima di tutto, la scoperta di un metodo. È uno sguardo che si concentra sulla mancanza per riconoscere quello che è arrivato, che individua nelle assenze i luoghi in cui si è annidato il presente. Quello che abbiamo perduto racconta chi siamo. Se il futuro non esiste e non è neppure immaginabile, il solo modo per guardarsi dall’alto, secondo una prospettiva storica ed esistenziale, è concentrarsi su quello che manca e ci manca in modo da comprendere con che cosa lo abbiamo riempito. Siamo anche quello che non abbiamo più. La nostalgia è sintomale – nel senso di Louis Althusser e Jacques Lacan –: legge tra le righe del presente e definisce i nostri desideri e moventi in base a sintomi e lapsus perché, in assenza di futuro, il passato diventa l’unico luogo in cui si può riconoscere il presente. C’è soltanto quello che non c’è più. Abbiamo davanti quello che abbiamo dietro.
Lo sappiamo da sempre, in fondo. Il passato è la sola dimensione visibile. Ci sta di fronte. Non è un paradosso, esistono esempi concreti di cognizione inversa del tempo. Per gli aymara – un milione e mezzo di persone che vivono tra Bolivia, Perù e Argentina – il tempo scorre all’incontrario: quando parlano del passato indicano davanti a sé; per riferirsi al futuro, invece, dietro la schiena. La loro logica è impeccabile: il passato è conosciuto e, quindi, si vede. Il futuro, invece, essendo incognito, sta alle nostre spalle. Siamo tutti aymara, senza saperlo. È un aymara l’ormai proverbiale Angelus Novus di Walter Benjamin, che «ha il viso rivolto al passato» e una tempesta «impigliata nelle ali», che «lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo». Furono aymara, a loro modo, anche i greci e i romani. In latino – devo la segnalazione a Giorgio Ferrante – l’avverbio ante significa sia “prima” in senso temporale che “davanti” in senso spaziale, e lo stesso succede con post. (E con l’inglese before). Per gli antichi romani il passato è ante nos, il futuro è post nos, viene “dopo” in senso temporale, ma “dietro” in senso spaziale. Conosciamo gli “antenati”, non sappiamo nulla dei “posteri”. È un ribaltamento che agisce anche nella cultura greca. Nel Libro dei sogni, Artemidoro di Efeso scrive parlando del mito di Deucalione e Pirra che ripopolano il mondo gettandosi alle spalle pietre che si trasformeranno nei loro posteri: «Infatti tutto quanto sta dietro è simbolo del tempo futuro». Come scrisse Junichiro Kawasaki, il famoso poeta giapponese: «Abito un tempo che ha un occhio solo | guarda il passato. Il futuro è alle spalle. | La nostalgia è noia che dilaga. | Nostalgia della nostra nostalgia». Camminiamo a ritroso dentro la storia, come gamberi, senza sapere dove stiamo andando, gli occhi fissi su quanto lasciamo. Su tutto quanto svanisce.
Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste in segreto davanti, senza rivelarci che siamo avvenuti perché soltanto ciò che è accaduto esiste per sempre. E se vogliamo restare, nelle opere e azioni, è solo per diventare la memoria di qualcun altro. Questo libro è un inventario di assenze: ci sono portinai, benzinai, semafori, cinema porno, orologiai e stelle cadenti; ci sono matti di paese, bottoni e gomitoli di lana, giochi pericolosi, autostoppisti, autogrill e treni di notte, cartoline e lettere d’amore, almanacchi, cabine del telefono, pensioni, filande, spazzacamini, pompe funebri e cimiteri. C’è molto di quanto non c’è più. È un tentativo di descrivere il tempo in cui abitiamo partendo da quello a cui ha rinunciato. Ma la nostalgia non significa lamentarsi dei tempi che corrono contrapponendoli a un passato migliore. È un metodo per provare a capire quanto ci accade intorno, partendo dalla certezza di essere determinati, sempre, molto più da quanto è accaduto che da quanto è, oppure accadrà.

La pretesa di essere nuovi è ottusa e ridicola. Il presente è un’illusione. Il passato è incommensurabilmente più esteso. «La vita è in differita. Siamo come le stelle, antichi e distanti, abitanti di un altro tempo, inquilini di un altro spazio», scrive il geniale (e pigerrimo) cineasta francese Jules Les Jour in Je n’existe pas. Le stelle impiegano milioni di anni luce per farsi vedere e si mostrano quando sono già esplose. Le stelle che cominciano a brillare quando si sono spente per sempre. Perfino la luna è vecchia di un 1 secondo e 20 centesimi. E il sole è un’immagine passata da 8 minuti e 33 secondi. Allo stesso modo vengono al mondo le novità e le notizie, che sorgono da qualche altra parte e viaggiano, consumandosi tra meridiani e paralleli, fino alla noia, fino al tramonto.
Per noi tutto esiste in ritardo, prima di accadere. I libri che leggiamo per capire la realtà, la musica che ascoltiamo per sentirne il suono, i film che andiamo a vedere, eccitati all’idea di tenerci al passo con i tempi, gli abiti che indossiamo orgogliosi di essere alla moda, i leader che votiamo per migliorare il futuro sono progetti, intuizioni e invenzioni vecchi di anni. Come questa parola, che è presente ma è già stata scritta. Come questa pagina, già scritta, che sta per finire.
Milano, 5 febbraio 2013

La gita in autogrill

Il primo autogrill italiano – che non si chiamava autogrill (il marchio arrivò solo nel 1977) – spuntò sulla Milano-Torino nel 1947, a Veveri, nei pressi del casello di Novara. L’industriale dolciario Mario Pavesi aveva pensato di costruire sull’autostrada un punto vendita per i suoi biscotti. L’architetto era Angelo Bianchetti. Il successo fu immediato. Motta e Alemagna lo imitarono con gli architetti Melchiorre Bega e Carlo Casati, e presto arrivarono gli autogrill a ponte, sospesi come serpenti volanti su entrambe le corsie di marcia. Per gli automobilisti degli anni Cinquanta e Sessanta rappresentarono il nuovo, anche se il modello era antichissimo: le osterie con le stazioni di posta e il cambio cavalli, i bordelli sulle vie dei pellegrini e le oasi nel deserto. Ma il modello – sosta e consumo, parcheggio e carrello – preannunciava anche noi. Preparava i supermarket e i centri commerciali di oggi. A essere nuova era l’estetica, perché nuova era l’ideologia che l’aveva partorita. La scelta doveva essere sempre strabordante e la merce universalmente accessibile, voluttuosa proprio perché voluttuaria, una sfilata di transistor, spumanti, pupazzi giganti, cioccolati e salumi. Era un mondo pragmatico dove si correva veloce e si consumava correndo.

Racconta un signore che nel 1960 aveva dieci anni: «La domenica con la mia famiglia andavamo in gita all’autogrill Pavesi di Lainate per mangiare il panino Quick (veloce), che era poi l’hamburger di McDonald’s». La storia scivolava sotto le gomme come un nastro d’asfalto e bisognava sbrigarsi, perfino a mangiare – glup! –, come nei cartoni animati. L’idea di ribaltare la scritta «Area di Servizio» in «Servizio di Area» forse venne allora, in un’epoca che si concepiva veloce come un cartoon americano, precipitevolissima al punto da rendere impossibile la segnaletica, ma che era ancora popolata di persone poco alfabetizzate che leggevano con lentezza. Era una ingenuità ottimista ma triste, un po’ da fumetto, che provoca un po’ di nostalgia.
Non è soltanto l’Italia povera e contadina a suscitare rimpianto. Oggi che stiamo diventando poveri davvero iniziamo a provare rimpianto per quando eravamo ricchi e fiduciosi. «In quinta elementare, come regalo di promozione», continua il signore che nel 1960 aveva dieci anni, «mio papà promise di portarmi a mangiare il Quick in autogrill. Non lo fece mai. Aspetto quel momento da sempre. È stata la delusione più grande della mia vita». È la trama di Gita al faro di Virginia Woolf all’epoca del boom.

Le cabine telefoniche

Un nugolo di bambini davanti a una cabina telefonica si interrogava sulla sua natura e funzione. Alice: «Per me è un’automobile trasparente e in piedi, senza le ruote, ma con il telefono!». Jonathan: «Ma che dici, quello è un camerino per provarsi i vestiti!». Alice: «Ma tu sei fuori, non puoi mica cambiarti per strada…». Chiara: «Infatti, perché c’è il vetro, poi tutti ti vedono nuda!». Pietro: «Non sapete niente: quello è il camerino di Superman!». Tutti gli altri, in coro: «E chi sarebbe questo Superman, scusa?». Sono rimasto lì a immalinconirmi, domandandomi se fossero più fuori moda le cabine o Superman.
In Italia ne sopravvivono più di 100mila, e ognuna fa 3 telefonate al giorno di media. Quando un predatore invade un altro habitat divora tutto quello che trova. Nel 1996 in Italia c’erano 11 telefonini ogni 100 abitanti. Oggi ce ne sono 108, sempre più feroci e affamati. Qualche tempo fa Telecom, che è finanziata dallo Stato per gestire i telefoni pubblici, ha chiesto al Garante delle Comunicazioni l’autorizzazione a sopprimerne un quarto e l’autorizzazione è stata concessa a patto di risparmiare quelle nei pressi di scuole, ospedali e rifugi, e di permettere a ogni cittadino di salvare la propria mandando un’email (l’indirizzo sarebbe cabinatelefonica@agcom.it, ma al momento risulta underivable, irraggiungibile).
I bambini si sono allontanati. Mentre li guardavo andar via, continuavo a fissare «il camerino di Superman», ricordando di quando avevo la loro età. Erano gli anni Settanta, le Br sparavano. Dopodiché, in genere, entravano in una cabina a telefonare a un giornale per comunicare in quale altra cabina avevano lasciato la rivendicazione. Di solito ce l’avevano con il Sim, che allora significava Stato Imperialista delle Multinazionali, oggi Subscriber Identity Module, e identifica la scheda dei telefonini. Forse era una premonizione. Le cabine erano il modo più sicuro per non essere rintracciati. I brigatisti conoscevano il valore della riservatezza. E forse anche un po’ della vergogna.
Ma le tecnologie trasformano gli uomini. Nel 1992 Cuore lanciò la rubrica «Terziario arretrato» di Interceptor: telefonate anonime intercettate da un baracchino. «La cosa più impressionante», ricorda Michele Serra, il direttore, «era che già allora parlavano esclusivamente di soldi e di sesso». Diciotto anni dopo, le intercettazioni sono la lingua stessa della Seconda Repubblica e dei suoi innumerevoli scandali. La lingua della sua verità, storica, morale ed estetica, prima ancora che giudiziaria. Un linguaggio ibrido e bastardo, in cui l’oralità diventa testo senza mediazioni, che si arricchisce ogni giorno di nuovi inconcepibili capitoli.
Nonostante questo, tutti parlano senza essere sfiorati dal dubbio di essere intercettati e neppure ascoltati. Sono stupidi o spudorati? Non bisbigliano e non si appartano, telefonano in strada, al ristorante, in treno, sbraitando di partite, appalti, bilanci e voti truccati. E di massaggiatrici, pure truccate. Nel 1921 Gafyn Llawgoch scrisse: «Vacilla il pudore borghese, indeciso se trasformarsi in ostentazione o vergogna». Llawgoch scriveva nella Cardiff degli anni Venti e non poteva sapere che l’umanità stava per buttarsi tra le braccia della visibilità dispiegata, dell’esibizionismo sfrenato. A volte sale l’irrefrenabile voglia di non sapere più niente, di tapparsi gli orecchi o di tappargli la bocca. Ed è stato con questo proposito che, alla fine, sono entrato nella cabina e mi sono infilato il costume da Superman.

La Settimana Enigmistica

Foto così non ne esistono più. È sul cruciverba in prima pagina della Settimana Enigmistica, ritrae Milly Carlucci sorridente (sui numeri dispari ci sono le donne, su quelli pari gli uomini) ed è in bianco e nero. Se fosse ovale starebbe bene su una lapide al cimitero. Il carattere della testata fa pensare ad antiche civiltà, agli assiri, agli etruschi o ai sumeri, reinterpretate dalla grandeur fascista. La cifra a sinistra sopra lo schema (508.427) indica l’esorbitante quantità totale di giochi pubblicati nei 4.216 numeri usciti dal 23 gennaio 1932 al 12 gennaio 2013. Sull’ultima pagina, a metà della quarta colonna, è scritto in corsivo: «Periodico fondato e diretto per 41 anni dal Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant’Andrea».
Era un sardo, figlio del fondatore del Rotary Club dell’isola. Si trasferì a Milano, sposò un’austriaca ed ebbe l’idea di importare in Italia i giochi di enigmistica di derivazione americana che a Vienna stavano spopolando. Il primo numero uscì all’inizio del 1932, Anno XI dell’Era fascista, e costava 50 centesimi. Da allora non si è mai fermata (soltanto il n. 694 del 14 luglio 1945 è uscito in ritardo a causa delle devastazioni della guerra). Da allora quasi tutto è rimasto immutato. Perché questa è la regola segreta della Settimana Enigmistica, il suo enigma nascosto: nulla deve mai cambiare.
Quando morì Pietro Bartezzaghi, il più grande inventore di parole crociate della storia italiana, non ci fu necrologio e non listarono a lutto il suo cruciverba. I suoi schemi continuarono a uscire per mesi e mesi, come se niente fosse, fino a quando furono sostituiti da quelli firmati dal figlio Alessandro. Una A. al posto della P. Nulla di più. L’importante era ridurre al minimo il cambiamento (e il turbamento). Tutto deve rimanere uguale nei secoli. Elencare i titoli delle rubriche della Settimana Enigmistica significa tornare a respirare il secolo scorso e le sue polveri: L’edípeo enciclopedico, La pagina della Sfinge, Forse non tutti sanno che…, Strano, ma vero!, Il piacere di saperlo!, «Spigolature», Risate a denti stretti (non le pagano più), Antologia del buon umore, Per rinfrancar lo spirito… tra un enigma e l’altro. Sono espressioni di un gusto che sopravvive solo in questo habitat. Un amico ricorda con orrore e nostalgia le domeniche trascorse in famiglia, negli anni Sessanta, a cancellare con la gomma le soluzioni dei cruciverba a matita per riciclarli o rifarli da capo. La parsimonia come metodo per contrastare il passare degli anni.
La Settimana Enigmistica è un resto pietrificato che il tempo non può più scalfire e la sua impermeabilità alla storia è la ragione del suo perdurante successo. Per questo, agisce come ansiolitico. È un antidoto ai tempi che corrono, un rifugio dalle intemperie della cronaca, la negazione che una cosa chiamata progresso possa esistere. In questo senso è il vero giornale dei conservatori italiani. Ne esprime il cuore e il sentimento profondo: la storia umana è insensata e pericolosa, è meglio trovare un nascondiglio per sé e per ciò che si possiede. Un’illusione che ha potenza, consola e ripara.
Sfogliando le pagine, la nostalgia ti assale alla gola. Sfilano i pittori Pen e Nello, il cavalier Busillis, lo scultore Victor, Gianni Telodice, il professor de Nuvolis e Policarpo Chilossà; la Susi parla col Corvo parlante, l’investigatore Volponi sfida l’ispettore Bracco e il dispettoso Osvaldo litiga con il signor Brando. L’unico che non si vede è il tenero Giacomo, che in realtà era tedesco e si chiamava Der kleine Herr Jakob. Non ritornerà mai più. Il tempo passa anche su chi ne ha paura. Dev’essere rimasto spiaccicato sull’ultima pagina.

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Laterza ha pubblicato Inventario sentimentale di Giacomo Papi, una raccolta degli articoli scritti negli ultimi tre anni per la sua rubrica Cose che non vanno più di moda su D di Repubblica.