Il recupero dei babbei

Goffredo Fofi parla a Repubblica della sua rivista e della «vera sfida di oggi» per la cultura in Italia

TURIN, ITALY – MAY 12: Goffredo Fofi attends during 2011 Turin International Book Fair on May 12, 2011 in Turin, Italy. (Photo by Valerio Pennicino/Getty Images) *** Local Caption *** Goffredo Fofi;

TURIN, ITALY – MAY 12: Goffredo Fofi attends during 2011 Turin International Book Fair on May 12, 2011 in Turin, Italy. (Photo by Valerio Pennicino/Getty Images) *** Local Caption *** Goffredo Fofi;

Su Repubblica di oggi Simonetta Fiori intervista Goffredo Fofi, in occasione dell’uscita del numero 150 di Lo Straniero, la rivista diretta da Fofi dal 1997.

Se ha resistito per quindici anni sempre nella stessa rivista – circostanza davvero singolare – è perché «fuori non succede granché, anzi sono stati gli anni più morti». Lo Straniero festeggia il numero 150, un lungo viaggio tra arte cultura scienza e società che comincia nell’estate del 1997, ma il suo timoniere non sembra dell’umore migliore. O forse sì. La cultura oggi? Una sorta di “oppio del popolo”. La tribù dei lettori? Solo nel nominarla, a Goffredo Fofi viene l’allergia. E i festival, i premi, gli eventi, i reading, i saloni, le fiere? «Un chiacchiericcio inutile. Tutti si sentono bravi e intelligenti solo perché consumano libri, film, idee imposti dall’industria culturale. In realtà siamo riempiti di pensieri che non sono nostri».

Insomma, si sente un reduce?
«Ma per carità. Ho sempre detestato i reduci, anche quando erano personaggi straordinari. Per questo mi ostino a fare lo Straniero, che gode di uno zoccolo duro di abbonati».

Cosa vuol dire fare una rivista oggi?
«Quello che ha sempre significato: interpretare il tempo dal punto di vista di una minoranza esigente e attiva. In qualche modo io ho sempre fatto la stessa rivista, adattandola alle varie stagioni della storia italiana».

Ma cinquant’anni fa era molto di moda, oggi sembra un genere di antiquariato.
«Che vuol dire? Le minoranze esistono sempre. E io grazie a loro riesco a sopravvivere in un paese annegato nella stupidità».

Umor nero.
«La tragedia vera della mia generazione, dei cosiddetti alfabetizzatori, è che ci siamo confrontati con un popolo straordinario quando era analfabeta e che poi – una volta imparato a leggere e scrivere e messi da parte un po’ di soldi – è diventato un popolo di mostri e di servi».

Dovevate lasciarli morire di fame?
«No, era giusto lottare per l’emancipazione, però nel momento in cui i morti di fame hanno avuto la pancia piena si sono rivoltati ai valori di comunità, solidarietà, giustizia sociale per cui erano stati affrancati. Questo popolo che ho amato follemente è diventato tutt’altro che amabile. Se penso a chi è oggi il mio prossimo…».

Chi è il suo prossimo?
«Il mio prossimo è il Trota. È quella la vera sfida di oggi: il recupero dei babbei. Nella categoria dei gonzi includo anche gli analfabeti laureati. Prima avevamo analfabeti autentici, oggi li abbiamo provvisti di diploma. Si drogano di fiere, di libri, di film, di discussioni, di presentazioni, di commemorazioni, di festival. Applaudono freneticamente i nuovi guru mediatici. E si illudono di pensare. Ma è un’illusione».

(continua a leggere sulla rassegna stampa della Treccani)

foto: Valerio Pennicino/Getty Images