La morte di Carla Verbano

Carla Verbano aveva 56 anni la mattina in cui suonarono alla sua porta, in via Monte Bianco, nel quartiere Montesacro, a Roma. Guardò dallo spioncino, erano tre ragazzi, dissero «Siamo amici di suo figlio Valerio». Lei aprì, i tre nel frattempo si erano calati il passamontagna: entrarono in casa, legarono Carla e Sardo, suo marito, e li fecero sdraiare sul letto, nella camera matrimoniale. Poi aspettarono. Valerio tornò a casa, posteggiò la Vespa 50 e salì. Carla e Sardo sentirono voci concitate, rumori, poi uno sparo, uno solo. I tre scapparono, uscendo dal portone incontrarono una persona. In casa Verbano entrò un vicino che aveva sentito lo sparo, liberò Carla e Sardo: corsero nell’altra stanza, Valerio era sul divano a faccia in giù, disse «mamma aiuto, aiutami mamma», e basta. Gli avevano sparato alla schiena, sotto la nuca. Morì mentre lo trasportavano all’ospedale. Valerio aveva 18 anni, era militante dell’autonomia operaia, frequentava un istituto romano, l’Archimede. Morì, giustiziato a casa sua, il 22 febbraio 1980. Ieri è morta anche sua mamma, Carla:aveva 88 anni. Sardo se n’era andato tempo fa. Per 32 anni Carla ha inseguito la verità, non si è mai data pace: è arrivata a toccarla, quasi a guardarla negli occhi. Era una tenace, non si arrendeva.

Dopo quella mattina di febbraio vennero fatti gli identikit con l’aiuto di chi aveva visto gli assassini uscire dal portone: erano anche loro giovanissimi, come Valerio. Una rivendicazione arrivò dai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, fascisti diciottenni che in quegli anni misero a ferro e fuoco Roma e non solo. Si trovavano nel bar del fungo, all’Eur. Da piccoli fascistelli divennero un gruppo di assassini tra i più feroci. Carla Verbano di politica non sapeva nulla, non aveva capito nulla di quegli anni. Iniziò a scavare, a cercare di capire, incontrò amici e poliziotti, incontrò i nemici di Valerio. Ha raccontato tutto in un libro, Sia folgorante la fine, uscito due anni fa. Ha scritto Carla Verbano: «L’inizio deve essere folgorante, Carla, mi dicono quelli ai quali parlo del libro. Capirai, folgorante, alla mia età. Io come inizio ho scelto la cosa più innocua che ci sia, un sogno. Perché quando mi sveglio, ogni mattina da trent’anni, voglio tutt’altro: sia folgorante la fine, di questa storia».

La storia della morte di Valerio Verbano è anche la storia di una città, Roma, che in quegli anni era divisa, piena di confini: di qua zona nera di là zona rossa. Le botte ma anche i colpi di pistola, gli omicidi a freddo. Le imprese del gruppo di Fioravanti e Mambro, con Giorgio Vale, Alesandro Alibrandi, Stefano Soderini, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini. Gente che uccise a freddo, come davanti al liceo classico Giulio Cesare, quando spararono a Franco Evangelista, il poliziotto che chiamavano Serpico. O come quando uccisero un magistrato, Mario Amato, il 23 giugno 1980. Amato era l’unico che a Roma indagava sui “neri”. Da solo, per una mole enorme di delitti: nessun aiuto, poca solidarietà. Lavorava nello stesso palazzo del giudice Antonio Alibrandi, papà di Alessandro, l’assassino amico di Giusva Fioravanti. Amato faceva arrestare Alessandro, il padre lo liberava. Alla fine Amato fu ucciso. Era solo, senza scorta, senza macchina blindata.

Carla Verbano era convinta di sapere chi aveva ucciso suo figlio. Militanti fascisti, di questo era certa. Sapeva anche che una cosa è la verità storica e un’altra è quella giudiziaria. Negli ultimi due anni i magistrati che hanno riaperto il caso hanno lavorato attorno ad alcuni nomi, gente insospettabile oggi, allora giovanissimi “neri” che ruotavano intorno ai gruppi di fuoco. Cani sciolti che non appartenevano ufficialmente a nessun gruppo. Già allora si erano fatti molti nomi. Valerio era figlio di quegli anni, non era un angelo, un pacifista: partecipava a scontri, anche duri, con i fascisti. Prendeva botte e le dava, in un quartiere, Montesacro, le cui linee di confine tra una parte e l’altra mutavano quotidianamente. Valerio Verbano aveva un archivio con tanti nomi di camerati della zona di Montesacro. Si parlò di Nanni De Angelis, giovanissimo militante di Terza Posizione, il gruppo fondato da Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi e Peppe Dimitri. Si disse che De Angelis era stato colpito da Verbano durante uno scontro tra rossi e neri. Nanni, accompagnato dal padre, andò a casa Verbano. Entrò nella stanza dove Valerio era stato ammazzato. Disse: «Signora, io non c’entro nulla con la morte di suo figlio».

Anche Nanni De Angelis fece una brutta fine, pochi mesi dopo. Venne arrestato il 4 ottobre del 1980 mentre era in compagnia di Luigi Ciavardini, indicato come l’assassino del poliziotto Serpico. Al momento dell’arresto ci fu una colluttazione violenta, De Angelis era un ragazzone alto e grosso, giocatore di football americano, uno che non si tirava mai indietro. Venne ricoverato in ospedale poi subito dimesso e chiuso in isolamento a Rebibbia. Lo trovarono impiccato con un lenzuolo il 5 ottobre. In tanti non hanno mai creduto alla versione ufficiale.

Un altro omicidio, commesso a Milano nel marzo 1978, quello di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, è simile a quello di Valerio Verbano. Spararono a Fausto e Iaio davanti al Leoncavallo. Anche in questo caso ci sono alcuni nomi, soprattutto uno: nomi che ruotano intorno a questa storia. Indizi, mai prove. Carla Verbano pensava che potesse essere stata la stessa gente. Che gli assassini di Fausto e Iaio fossero venuti da Roma. C’è un’altra cosa che racconta Carla Verbano nel suo libro. Un giorno incontrò Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Aveva cercato lei quell’incontro. Di chi aveva ucciso suo figlio, Giusva Fioravanti disse di non sapere nulla. «Ma ha mentito», dice Carla, «io lo so che ha mentito. Mentì anche quando disse di non sapere nulla dell’omicidio Amato. E invece poi si seppe che era stato lui a pedinare il magistrato, a dare tutte le indicazioni».

Ogni tanto qualcuno imbratta la lapide che ricorda Valerio Verbano a Roma, succede spesso. Fanno scritte, la vernice è nera. Carla viveva qualche piano sopra quella targa. Lei diceva: «Venite, guardatemi negli occhi, avete solo il coraggio di sporcare una lapide». Nessuno le ha mai risposto, nessuno l’ha mai guardata negli occhi. Ora è morta senza potere vedere il volto di chi ammazzò suo figlio come un cane, mentre lei era legata in una stanza e lo sentiva urlare.

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.