Dopo le primarie

Il ballottaggio non poteva essere un pranzo di gala, infatti non lo è. Non abbiamo scritto per nulla che queste sono primarie vere, una competizione seria e aperta. L’ha confermato subito Matteo Renzi ieri, nel primo dei cinque giorni che ha a disposizione per recuperare 290 mila voti: un paio di colpi sotto la cintura dedicati al Bersani ministro che avrebbe avuto responsabilità sia nell’organizzazione di Equitalia che nella privatizzazione dell’Ilva. Due argomenti non proprio scelti a caso, i più roventi che ci siano, il secondo poi con l’aggravante dei rapporti pregressi (e pubblici) fra i Riva e lo stesso Bersani.

Non c’è da drammatizzare. Passiamo dalle «cose belle», scambiate fra i due per sms e raccontate dal segretario, alle accuse esplicite di corresponsabilità con le scelte sbagliate del passato. Le recriminazioni contro la nomenklatura sulle regole per iscriversi al voto e gli errori della classe dirigente degli ultimi anni sono i temi dello sfidante che deve rimontare. Renzi pensa di dover andare giù duro (alzando le attese per il duello tv di questa sera), e di poterselo anche permettere perché i risultati del primo turno hanno tolto di mezzo l’argomento atomico della sua estraneità al Pd e al centrosinistra. Se accende la polemica, con quel bagaglio di un milione abbondante di voti nessuno può più accusarlo di muoversi da agente del nemico.

Lo sdoganamento definitivo è venuto dalla stessa Unità che solo un mese fa imputava al sindaco di Firenze comportamenti «fascistoidi», e che ieri nell’editoriale del direttore Claudio Sardo riconosceva Renzi come «secondo vincitore» delle primarie; definiva la conquista del ballottaggio «la consacrazione a una leadership effettiva e popolare»; invitava tutti a «non mettere tra parentesi il risultato di Renzi» e infine prospettava un futuro nel quale la radicalità dello sfidante possa essere ricompresa nel progetto collettivo guidato da Bersani.

Un commento condivisibile al cento per cento. Subito però si apre la domanda: data per scontata la dichiarata e ribadita lealtà post-primarie, se, come e fino a che punto Renzi è riassorbibile nel Pd eventualmente guidato da Bersani? Il tema per fortuna non è più di tipo antropologico o etnico, bensì puramente politico. Verosimilmente Renzi non uscirà dal ballottaggio di domenica con meno del 40-44 per cento dei voti espressi: per paradosso, la formula giustamente voluta da Bersani per potersi presentare come leader della maggioranza assoluta del centrosinistra (e avversata inizialmente da Renzi) avrà l’effetto mica tanto collaterale di intestare al sindaco di Firenze una minoranza interna di dimensioni mai viste prima nel Pd.

Un enorme pezzo di elettorato progressista che, a ragione, anche Claudio Sardo considera imprescindibile. Finiscono in archivio le speranze di Mario Tronti e di molti come lui (anche molto più giovani di lui) di espellere dal Pd l’oggetto estraneo e tutti i suoi sostenitori. Ma questo conta poco: lo si doveva sapere dalla vigilia. Chi dovesse ripetere simili facezie adesso andrebbe ammonito col banale calcolo (non a caso fatto ieri dallo stesso Renzi) della proiezione su scala elettorale nazionale di un 40-44 per cento delle primarie: vale almeno il 15 per cento, meglio non giocare con simili numeri. La questione vera è che l’assimilazione piena di Matteo Renzi al Pd eventualmente bersaniano è molto molto problematica. Dovessimo dire oggi, la considereremmo impossibile. E non per incompatibilità personale (anzi, i due si prendono), né per impermeabilità reciproca delle aree di consenso (basti guardare i dati delle regioni a maggiore insediamento democratico).

Il fatto è che Renzi resterà “fuori” – resterà a Firenze, intendiamo – perché la sua partita rimane secca. O si vince o si perde. Vista dal suo punto di vista: se tocca a Bersani, Bersani deve giocarsi la sua corsa verso palazzo Chigi e poi auspicabilmente il suo duro lavoro da premier. Renzi lo sostiene nella campagna elettorale, chiede (e verosimilmente ottiene) una rappresentanza parlamentare congrua anche se non matematicamente proporzionata alla percentuale ottenuta al ballottaggio, partecipa alla vita del Pd, ma non si fa coinvolgere in alcun modo. Né nella gestione di partito, né nel governo. Il suo obiettivo diventa vincere la prossima volta (magari calcolando che, con una legislatura nata precaria, la prossima volta possa non essere così lontana).

Tutto questo non attiene a calcoli particolari. Anzi è verosimile che molti di coloro che ora sostengono Renzi la pensino diversamente da lui su questo punto, e siano disponibili a «farsi coinvolgere» (sia pure non nel modo con cui si fece ricoinvolgere Dario Franceschini nel 2009 dopo esser stato battuto da Bersani per la segreteria: lo citiamo solo perché il paragone col risultato di Franceschini è stato proposto dall’attuale maggioranza per sminuire la portata del dato di Renzi). Tutto questo attiene alla personalità del sindaco di Firenze, abbastanza unica in questo momento. Come conferma il fatto che ieri sia ripartito all’attacco senza concedere a Bersani più di qualche applauso, siamo di fronte a una macchina da battaglia elettorale che al massimo può ridurre i giri (com’è successo nei primi mesi del governo Monti), ma spegnersi mai.

Questa macchina deve essere posta al servizio del centrosinistra per vincere nella prossima primavera meglio di quanto saprebbe fare il Pd “pre-primarie”. Conviene a tutti, a Bersani più che a ogni altro. Renzi ha il dovere di mettersi a disposizione e lo farà perché lui eredita dalle primarie, insieme a una bella forza, anche molti obblighi e una enorme responsabilità verso una collettività. Ma assimilarlo, coinvolgerlo oltre un certo limite, magari nei calcoli di qualcuno neutralizzarlo: questo non accadrà. E un’alta tensione intorno al “ragazzetto”, come imprudentemente lo chiamò Franco Marini, d’ora in poi ci sarà sempre.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.