Festival del fotogiornalismo: un bilancio amaro

Visa pour l’image – Perpignan 2012 – 24° edizione

Si è concluso, come ogni anno, il Festival di Perpignan. Ci siamo andati, un po’ con lo spirito con cui andiamo a fare gli auguri di Natale alla zia. Noi alla zia si vuol bene e così anche a Visa pour l’image.

In questa Francia del sud che ha già sapori spagnoli Spagna, questa ventiquattresima edizione di Visa, ci ha proposto una sfilza di reportage sui mali del mondo, visti rigorosamente dalla parte delle vittime, identificate con assoluta certezza dall’organizzazione del Festival o meglio dal suo eterno direttore, Jean Francois Leroy.

Il nostro JFL ha un grande merito: aver avuto l’idea e la forza di imporre e mantenere questo appuntamento per quasi un quarto di secolo ottenendo grandi successi e diffondendo il fotogiornalismo come pochi altri eventi hanno saputo o voluto fare. Di questo non possiamo non dargliene merito. Qualcuno però potrebbe suggerirgli – rigorosamente in francese, unica lingua utilizzata dal festival – che il tempo trasforma e, quando va bene, migliora le cose.

Invece questa preziosa occasione perde smalto ogni anno. Sono sempre più costosi gli stand da affittare e, dunque, sempre meno presenze di agenzie e collettivi. Sempre più uniformi le mostre: stessi formati, stesse cornici, stesse illuminazioni in corridoi in cui si confondono gli autori e le tragedie che raccontano. Sempre più ovvie le proiezioni sui temi cari alla direzione e imbarazzanti le giurie che assegnano i premi: ricche di rappresentanza francese con gli stessi giurati che rimbalzano dall’una all’altra.

Però devo salvare le proiezioni didattiche, quelle ricostruzioni storiche dedicate ai Paesi al centro dell’attualità che, proiettate sui grandi schermi del teatro all’aperto, mostrano, necessariamente scolastiche, la storia che abbiamo sempre letto e mai visto.
Non può bastare questo a salvare un’edizione opaca e stanca. Dunque ho fatto piccole riflessioni anche quest’anno e ho selezionato una serie di immagini del Festival (mostre e proiezioni) alcune pertinenti e altre affatto, con questi miei pensieri.

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Dubitiamo perché abbiamo coscienza. O perché cerchiamo di averla, di farcela.
 Dunque, il dubbio, di fronte alle fotografie è legittimo e vitale.
 Negli ultimi anni i miei dubbi si sono moltiplicati.
 Non tanto sulla veridicità delle immagini o sul loro potere documentario, quanto sull’uso o l’abuso della loro manipolazione e quindi sulla necessità dei fotografi di stravolgere luci e atmosfere. Ho cominciato ad annoiarmi, poi a innervosirmi e infine a preoccuparmi.
 Il fotogiornalismo ha iniziato a interessarmi sempre meno e ho iniziato a guardare ad un’altra fotografia che raccontava il mondo.

Prospettive violate, cieli grondanti, nuvole minacciose nei paesi delle tragedie umanitarie; oscurità illeggibili e colori irreali nelle storie d’intimità.
Terre bruciate come la pelle dei visi dei moderni schiavi, sempre in posa (meglio se a tre o più soggetti a comporre una piramide che riempia l’inquadratura).

Affettate, riquadrate, caricate, drammatizzate o edulcorate, sempre più lontane dal documento o dal punto di vista dell’autore e sempre più frammenti di una fiction; uguali tra loro, indistinte, fotografie fatte da tutti e per questo non attribuibili a nessuno.
Congelare l’iconografia del dolore, replicarla all’infinito: rendendo uguali a loro stessi ogni bambino del Terzo Mondo, ogni problema di malnutrizione, ogni aridità del suolo, ogni esodo o migrazione.
 È successo così, a mio avviso, che i fotografi hanno perso il rapporto con la realtà, presi dalla foga di esprimere se stessi, di produrre immagini sempre più “forti” per un’ingenua, quanto assurda, necessità di lasciare il loro segno, così caricaturale da divenire debole e indistinto.

Dunque la mia distanza emotiva dal fotogiornalismo non potevo attribuirla ad un mondo meno interessante ai miei occhi, ma forse al modo in cui mi veniva mostrato.
Ecco riaffiorare la nostalgia dei vecchi maestri, della loro riconoscibilità, delle forti individualità.
 Distinguere la mano e l’occhio del fotografo ci fa avvicinare con meno diffidenza ai soggetti e agli eventi ripresi.

Io amo la fiction e adoro i film di fantascienza e quelli di fantasia. Avatar è il capolavoro del 2011 e Matrix mi ha posto domande sul futuro e sul potere. Insomma amo la finzione, la trasposizione, le domande esistenziali di Hollywood.
 Però voglio sempre sapere cosa sto guardando: intenti dichiarati e non moralistici.
 Non voglio fare finta di credere alle fiction, voglio godermele come tali.

Il linguaggio fotografico oggi deve liberarsi, non temere il giudizio, ma dichiarare l’intento. La realtà può essere ispiratrice, l’interpretazione può essere elaborazione.
Noi spettatori siamo pronti a guardare e cogliere l’originalità e l’identità del punto di vista. Niente è più forte.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.