La politica che non c’è

Ho una lista molto lunga di cose che non voglio dire e che non vorrei ascoltare sul passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Telefonica. Poi ho una lista molto breve di cose che voglio dire e che vorrei ascoltare sul futuro di Telecom Italia.

Nella lista lunga di temi rilevanti ma oggi del tutto inutili da citare ci sono

Massimo d’Alema
Roberto Colaninno
Marco Tronchetti Provera
Romano Prodi
Gianni Agnelli
Silvio Berlusconi
Enrico Cuccia e molti altri

Ma anche

Alitalia
l’italianità pelosa delle imprese italiane
le migliaia di parole a vuoto che la politica italiana ha eruttato in questi anni sull’argomento,
la retorica tardiva e deprimente dell’emergenza odierna.

La lista breve di cose da dire e da immaginare oggi è per conto mio ridotta a un solo argomento. Questo:

abbiamo bisogno di una infrastruttura di rete nazionale e di una politica delle reti.

Per mesi si è discusso dello scorporo della rete fisica di Telecom Italia e delle mille possibili variabili attaverso le quali questa operazione sarebbe stata possibile. Ora che il controllo dell’azienda è passata sotto Telefonica, che da tempo si è espressa contro lo scorporo, le ipotesi di accordo sembrano essersi allontanate di molto. È possibile a questo punto imporre ugualmente lo scorporo della rete alla nuova Telecom Italia, qualsiasi sia domani l’azionista di riferimento? La risposta è no. Non è possibile, non con questo governo debolissimo, non con un’Autorità delle Comunicazioni di questo tipo. Per dirla tutta non sarebbe stato possibile in nessuna occasione nell’ultimo decennio, più o meno per le medesime ragioni. E non è possibile soprattutto per una ragione che sta a monte di queste: perché la politica italiana non ha mai capito l’importanza della rete, specie da quando rete è diventato sinonimo di Internet. Quando ai nostri politici parli di “infrastruttura” loro pensano sempre alla calce ed ai mattoni, alle ferrovie e alle autostrade, ai ponti e alle Olimpiadi. Non è cattiveria, è proprio ignoranza, un limite attualmente non superabile. Non si raddrizzano i legni storti e la politica italiana (tutta) che in queste ore si esprime ampiamente sul tema (mi segnalano anche un comunicato stampa di Scilipoti) da un decennio usa le TLC esattamente come tutto il resto: moneta di scambio, poltrone, favori, ricatti ed altre amenità.

I motivi per cui abbiamo bisogno di una sola rete nazionale sono molteplici (pensate solo ai costi della NGN o al recente casino NSA) ma uno di questi è predominante: perché attraverso quei tubi passa il domani della nostra società. Non solo i rapporti con l’amministrazione, non solo la crescita economica, ma anche quella culturale. Nelle regole per quei cavi in fibra risiederà domani il termometro della nostra democrazia, come decideremo di gestire la libertà di espressione, come sarà fatta la nostra comunità di persone. È del tutto evidente che tutto questo non poteva e può essere lasciato interamente al mercato. Che la politica italiana non lo abbia compreso, nemmeno dopo i danni macroscopici della privatizzazione, dà la misura della sua stessa persistente mediocrità.

Da oltre un decennio esiste una enorme freccia lampeggiante sul tema con su scritto “INTERESSE DEI CITTADINI PER DI QUA”, conduce verso una gestione calmierata del mercato dell’accesso alla rete, parità di condizioni per i concorrenti ma anche principi regolamentari che tutelino con chiarezza i cittadini e che stabiliscano una scala di priorità generali (per esempio temi sui quali lo Stato scelga di investire propri denari quando e dove il mercato non arriva) ma è stato un percorso che nessuno si è sentito di seguire. Non c’erano i soldi certo, ma prima ancora non c’erano le teste. Abbiamo bisogno di una nuova politica delle reti, ne abbiamo bisogno oggi molto più di ieri pomeriggio.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020