I tweet che non scrissi

Malgrado dalle timeline non sembri, non è che scriviamo su Twitter proprio tutto quello che pensiamo. Ci sono delle cose, che per quanto moderate e apparentemente garbate possono suonare antipatiche, altre che lo sono davvero, altre che suonerebbero saccenti, o “chi ti credi di essere?”, anche se sono l’unico modo per chiarire il pensiero che hai avuto. Il tema dei nuovi meccanismi psicologici e di linguaggio indotti da Twitter mi incuriosisce molto: non è solo una questione di abbreviazioni, o di battute secche. C’è tutta una grande nuvola di sottotesti e pensieri non sempre decifrabili (altre volte del tutto ingenui e trasparenti), dietro ogni tweet, come si diceva qui. Un tweet spesso non è solo l’espressione di un concetto ma la costruzione di un effetto su cui l’autore ha lavorato: in certi si vede (e l’effetto quindi fallisce), in altri meno. Per contro, anche la “non scrittura” di un tweet è un atto molto deliberato: è la scelta di sottrarsi a qualunque effetto o interpretazione possibile (in realtà no: resta l’effetto di non avere scritto). Se uno per gentilezza rispondesse a tutti i tweet scriverebbe delle cose che non vuole davvero scrivere e non vuole davvero che le persone leggano e interpretino: e se nella scrittura normale il rischio è spesso superabile (non sempre) con capacità di esposizione e chiarezza adeguate che eliminino gli equivoci, riducano il peso delle intenzioni, o proteggano le sensibilità, nello spazio di un tweet è molto più difficile e spesso impossibile. Mi sono spesso chiesto se non costruiremo piano piano una nuova lingua fatta di sigle e acronimi utili a esprimere un concetto non comprimibile ma frequente, standardizzabile.
Per esempio, ci sono delle risposte che non scriviamo: per non irritare nessuno, o perché imbarazza noi stessi scrivere cose ovvie, o perché pensiamo che siano perdite di tempo, o che in alcuni casi il silenzio possa essere più efficace della risposta più ovvia e trasparente. Nel tempo, di queste risposte ne ho messe da parte alcune: non leggetele come risposte, suonerebbero antipatiche. Leggetele come risposte non date, benché pensate. Le ho numerate, perché hanno valore piuttosto generale e così possono anche essere usate come riferimento, d’ora in poi: quando volete potete citare il numero in un tweet e fingere che quindi quella risposta non l’avete davvero pensata voi, ma Luca Sofri, un’altra volta lontana. Questo spersonalizza, e alleggerisce. Ma proprio se serve, eh: che non rispondere è ancora la cosa più efficace e beneducata insieme, in certi casi.

1. La frase era ironica: intendeva cioè, scherzando, il contrario di quel che esprimeva.
2. No, non mi sono arrabbiato/No, non mi sono offeso. Tranquillo.
3. No, non mi sono arrabbiato/No, non mi sono offeso. Ma se lo hai scritto solo per eludere il contenuto della risposta, allora ok, capisco.
4. No, non ero seccato, non essere risentito. È solo che nello spazio di un tweet non ci stanno molte prudenze diplomatiche formali. E non uso le faccine, ho quasi cinquant’anni.
5. Se tu avessi cliccato sul link avresti visto che c’è già scritto.
6. Perché usi tutte queste maiuscole? Sai che i tweet pieni di maiuscole non attirano interesse, ma il contrario?
7. Questo tweet mi ha convinto a bloccarti, per non perdere tempo in futuro con altri tweet simili. Ciao.
8. Questo tweet mi ha convinto a silenziarti, per non perdere tempo in futuro con altri tweet simili. Ciao.
9. No, non è vero che non rispondo ai tweet, come puoi vedere da tutte le altre risposte. È che a volte abbiamo altre cose da fare, tutti. O non c’era niente da rispondere. O la domanda era scema.
10. Non ti ho risposto perché non ho visto il tweet. A volte non guardo twitter, a volte non guardo le notifiche e menzioni.
11. Capirai che se mi scrivi solo per fare il bullo, non ho molto da dirti.
12. Capirai che se mi rispondi solo per fare il bullo, trascurando quello che ho scritto, non ho molto da dirti.
13. No, non è un errore: è così che intendevo scriverlo, va bene.
14. Perché scrivi a me per offendere qualcun altro? Scrivi a lui. O meglio ancora, tienitelo per te.
15. No, non mi interessa perdere peso, grazie.
16. No, non ho detto così. Leggi bene.
17. Se mi attribuisci una cosa che non ho detto, non posso risponderne.
18. No, non credo che vi “aiuterò a diffondere” o che “farò girare”. Non è una cosa di cui so abbastanza.
19. Non posso rispondere di quello che fanno “i giornalisti”. Se facessi l’idraulico non potrei rispondere di quello che fanno “gli idraulici”. Rispondo di quello che faccio io.
20. Grazie, sono contento che tu sia d’accordo con me e sei gentile a scriverlo, non c’è bisogno che tu premetta “Di solito non sono d’accordo con Sofri”.
21. Perché usi la seconda personale plurale per scrivere a un account di twitter personale?
22. L’ho retwittato perché mi sembrava interessante, o buffo, o utile che altri lo vedessero. Non l’ho scritto io, né necessariamente lo condivido.

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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).