Dirigere la Biennale

Dirigere la Biennale, una delle istituzioni italiane più complesse e prestigiose nel mondo, è veramente difficile. E l’annuncio della nomina di Giulio Malgara, ideatore dell’Auditel e pubblicitario di lungo corso, da parte del ministro della Cultura mi ha gettato, per l’ennesima volta, nello sconforto più totale e mi ha dato l’ennesima, sconsolante conferma che in questo Paese si sta portando avanti una sistematica, degradante corsa verso lo smantellamento di tutti i patrimoni pubblici che possano in qualche modo contribuire al miglioramento e all’innalzamento della nostra vita culturale e sociale.

La Biennale non è un semplice luogo di esposizioni e grandi eventi. La Biennale è sempre stata la perfetta cornice dove l’arte, l’architettura, il cinema, il teatro e la musica migliore, più critica e avanzata, trovano accoglienza, ascolto, rielaborazione, comprensione a favore di centinaia di migliaia di persone che ogni anno vengono a Venezia per viverla.

La Biennale di Venezia è un paesaggio sterminato in cui è bello perdersi e scoprire. La Biennale è uno dei pochi giri del mondo che ognuno si può permettere pagando un giusto biglietto, alla scoperta delle sue culture, voci sconnesse e provocatorie, ricerche in forma di spazio e materia, che aprono occhi, sensi e mente facendoti tornare a casa diverso, perché arricchito di una esperienza composita e, spesso, stupefacente.

La Biennale è sempre stata specchio dei tempi che attraversava. Occupata dal fascismo come vetrina del potere di stato, ma anche dagli studenti e operai appoggiati dagli stessi artisti negli anni Sessanta. Il potere politico ha sempre messo la mano nelle scelte dei presidenti veneziani, ma lo ha fatto con una discrezione e un’attenzione quasi anomala rispetto al disastroso legame che c’è sempre stato tra la selezione dei dirigenti e le istituzioni pubbliche che erano chiamati a condurre.

E se guardiamo all’elenco dei presidenti della Biennale a partire dagli anni Settanta, troviamo Carlo Ripa Di Meana (1973–1978), Giuseppe Galasso (1979–1982), Paolo Portoghesi (1983–1992), Gian Luigi Rondi (1993–1996), Paolo Baratta(1998–2002), Franco Bernabè(2002–2003) e ancora Paolo Baratta, a dimostrazione che i personaggi scelti, erano sì selezionati con un forte gradimento politico dal governo in carica, ma erano almeno caratteri adeguati al ruolo e alla storia della Biennale.

Lo scorso anno io ho avuto modo di lavorare con Paolo Baratta e con la Biennale. Per una serie di casi strani sono stato chiamato a dirigere il padiglione Italia alla XII Esposizione internazionale di architettura della Biennale di Venezia.

La stranezza dell’evento derivò dal fatto che un bravo consigliere del ministro Bondi, non avendo individuato alcun specialista in architettura italiana vicino all’attuale governo (cito quasi testuali parole) iniziò una ricerca tra diversi giovani curatori e progettisti che ha portato alla mia investitura. E da quel momento cominciò la mia avventura nel paludatissimo e paludoso mondo del Ministero della Cultura fatto di molte attese e pochissime certezze. Unica vera, granitica evidenza era l’assoluto disinteresse del ministro al tema e ai contenuti, cosa che mi ha consentito una libertà d’azione che in ogni paese civile è una premessa assoluta per la direzione di un padiglione nazionale. Ma, in tutto questo clima d’incertezza, l’unico vero approdo sicuro furono la struttura della Biennale e il suo presidente.

I diversi incontri con Baratta sono sempre stati contraddistinti da una straordinaria e anomala attenzione al lavoro in corso, agli argomenti trattati e ai modi per rendere i contenuti adatti al pubblico che li avrebbe vissuti. L’arguzia e l’elegante discrezione con cui il presidente Baratta si confrontava con me e con gli altri curatori davano l’impressione di un sofisticato uomo di mondo e di potere capace di apprezzare e, soprattutto, capire fino in fondo i temi e gli argomenti di cui si discuteva. La macchina amministrativa e gestionale della Biennale era di livello internazionale con un grado di consapevolezza e attenzione ai temi affrontati che raramente avevo trovato in Italia e che ti facevano sentire protetto e tutelato nel tuo lavoro. Mi ricordo con stupore l’incontro tra Baratta e tutti i curatori dei padiglioni nazionali in cui il presidente sfoggiò un perfetto inglese (lo ammetto ho incisa nella memoria alcuni passaggi esilaranti di nostri “statisti” alle prese con la lingue d’oltremanica che mi fanno pensare che ogni uomo di politica italiana sia mono-lingua) e una padronanza degli argomenti sorprendente, e insieme la sensazione che si sarebbe potuto lavorare bene e con soddisfazione in questo ambiente.

Mi rendo conto che la maggior parte delle cose di cui scrivo parlando di Baratta e di questa Biennale sia di una banalità quasi sconcertante: un presidente consapevole del suo ruolo, preparato e capace di muoversi nel mondo, un manager attento che negli anni del suo mandato aumenta del 30 per cento i visitatori e diversifica la missione della Biennale ampliandola ad altre discipline complementari all’arte e all’architettura.

Eppure non è così, in Italia, purtroppo, non è così, ed è per questo che da un paio di giorni si stanno moltiplicando le voci di critica e di totale contrapposizione a una nomina che dimostra, ancora una volta, il disprezzo per le nostri istituzioni, per la nostra cultura di qualità internazionale, per la capacità che possono avere alcuni luoghi speciali di costruire pensiero critico e consapevole aperto al mondo che cambia.

Non esistono presidenti insostituibili, ma esistono scelte giuste che dovrebbero dimostrare l’intelligenza e la visionarietà di chi ci governa. E non credo che la Biennale abbia bisogno dell’ennesimo “manager” post-industriale che con la sua storia imponga l’indifferenza merceologica (hamburger, scarpe, bevande, opere d’arte come se fossero la stessa cosa) all’idea, ragionevole e per questo impossibile, che possano esistere persone con storie e competenze utili a fare crescere ancora la Biennale nei prossimi anni.

Ma in fondo questo ennesimo schiaffo alla nostra cultura, a quel poco che sta sopravvivendo ai tagli e all’incuria istituzionale, diventa l’ulteriore conferma all’urgenza che noi tutti dovremmo avere di mandare a casa questi signori, e di cancellare una delle pagine più buie della nostra storia politica e sociale recente.

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design