Difesa non romantica dei libri

Il direttore del Post scrive un pezzo sul declino del libro, anzi proprio sulla fine dei libri, che centra alcuni cambiamenti collettivi riguardo al libro e alla sua apparente progressiva perdita di centralità nella costruzione della cultura contemporanea. Internet ci sta abituando alla lettura breve (anche se non mi spingerei fino a dire addirittura che “la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga”, come dice Sofri), il nostro tempo libero è inoltre invaso da altre attività che prima non c’erano e che sono rapide, da smartphone, e che il tempo dei libri (sia il tempo nella giornata, che il tempo come lentezza) se lo sono preso.

Tutto vero. Ma questo non sancisce la fine del libro, anche se ne comprime certamente lo spazio commerciale (ma non è il punto). Sofri però si dice convinto che il libro come sintesi di uno studio, riflessione, idea sia una pratica al tramonto, destinata a essere soppiantata proprio dalla scrittura in rete, non solo perché più leggibile nella sua brevità, ma anche perché meno soggetta a sparire in poco tempo e soprattutto più disponibile a molti lettori.

Ma è proprio vero che tutti i contenuti della forma libro (non importa ovviamente se cartaceo o elettronico) sono minacciati da tutte queste innovazioni di cui si parla? Scrivere un saggio di trecento pagine pone molti problemi, di sintesi, di perimetro dell’oggetto, di senso, di scelta e di scarto dei materiali. Non esiste un libro che parli di qualcosa in scala 1:1, non solo perché duplicherebbe la realtà, ma soprattutto perché la realtà, in scala 1:1, strettamente parlando non ha senso. Sarebbe voler fare come i cartografi dell’impero, che volendo fare una mappa precisissima, fecero una mappa grande quanto l’impero. Per fare una mappa ci vogliono scelte, convenzioni, scarti, chiavi di lettura.

Tutto questo è un’impresa – anche se a volte si tratta di imprese fallite o scadenti – e richiede uno sforzo organizzativo, cognitivo e di scrittura che, per il momento, non sembra essere soppiantato dalle forme di scrittura di cui parla Sofri. Ma questo dal punto di vista di chi scrive (saggi). Dal punto di vista del lettore, è chiaro che difendere uno spazio di lettura dalla minaccia dello smartphone dipende dalla sua volontà di appropriarsi, o meno, di quel livello di conoscenza a cui il saggio di trecento pagine fa accedere e che nello smartphone non trova. Questo non vuol dire scaricare sul lettore il carico della lettura, ma il lettore sa che, almeno in alcune fasi della sua attività di persona che apprende, deve affrontare una lettura (oppure può sempre fidarsi di chi quell’accesso dice di averlo avuto, ma è un doppio livello di fiducia).

Ma di che libri parliamo? Facciamo un esempio più generale a partire dal libro che Sofri cita come esempio di obsolescenza rapidissima, e cioè “Indignatevi!” di Hessel. Due anni fa tutti lo compravano, oggi è sparito e nessuno se ne ricorda. Fosse stato in rete sarebbe ancora forse circolante in qualche modo. Mi pare un esempio sbagliato anche nel senso in cui lo usa Sofri (diffusione dei materiali in rete e in carta), ma io lo uso in un senso diverso.

Se io sostenessi la tesi che quel libro due anni fa abbia avuto un’influenza sui movimenti giovanili di protesta francesi e americani – perché credo che certi libri, anche senza volere, in certi momenti abbiano la capacità di spostarsi dal terreno delle idee e del dibattito per produrre azioni o per facilitare trasformazioni collettive, ma lo devo dimostrare, non basta crederlo -, dovrei mettermi a lavorare. Dovrei capire il come, andando a leggermi gli articoli dei giornali americani e francesi, dovrei vedere se i leader della protesta lo citano e come. Magari non lo citano, però usano parole che sembrano venire da lì, allora devo capire se ci sono libri, articoli, discorsi che contengono Hessel e che loro hanno letto. Quindi l’influenza forse non è diretta. Poi scopro che magari è un film che si ispira a Hessel, o un romanzo, e quindi i contestatori in realtà ripetono un cliché mediatico, come quelli che mettono le maschere di Guy Fawkes non perché sappiano della resistenza cattolica nell’Inghilterra del 1605, ma perché hanno visto V per Vendetta. E se invece fosse Hessel che è influenzato da movimenti di protesta? Dovrei allora studiare il suo percorso, i suoi altri libri, i libri che cita e se li cita bene o li deforma per le sue finalità. E poi dovrei provare tutto, citando tutte le fonti, altrimenti presto o tardi dirò che ci sono le scie chimiche e che le sirene guizzano felici nel Mar dei Sargassi.

In pratica devo scrivere un libro di trecento pagine, con delle ipotesi mie, delle prove e delle confutazioni. Il lavoro è complesso, richiede un certo grado di lentezza e un certo metodo (e si immagini se uno scrive un libro su Filone d’Alessandria o su Isidoro di Siviglia, ma anche un libro di economia, uno studio sulla presenza economica degli italiani in Germania dal 2007 a oggi). Certo il campo commerciale si restringe e certamente il lettore dovrà mettere lo smartphone a lato del suo tavolo.

Ma si può dire che tutto questo lavoro di scrittura e di lettura sia minacciato, in quanto tale, da nuove forme di sapere? Non credo. Si può però dire che distinguere tra velocità diverse di scrittura e di lettura debba necessariamente proporre un drammatico conflitto cognitivo tra i due livelli? Che possiamo fare a meno dei libri di trecento pagine, e che effettivamente ne faremo a meno, in favore dei post che scriviamo sui blog?

Certamente i tempi lenti non si addicono a tutte le fasi della vita e a tutte le situazioni (io credo che se uno non ha letto all’università Isidoro di Siviglia, che poi è un fumettone di mille pagine, possa serenamente non leggerlo mai e tanto più un saggio di trecento pagine su di lui), ma sono convinto che i tempi (e i libri) lunghi convivano ancora e lo faranno a lungo con i tempi brevi e che la qualità dei tempi brevi si nutra anche della qualità dei tempi lunghi, non solo di tecnologie e di rapidità. Il libro non è centrale come un tempo – è vero e forse è anche molto utile – ma senza il libro, e quello che il libro presuppone in termini di ricerca, scrittura e lettura, anche la velocità di altre scritture finisce con l’evaporare nel momentaneo.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.