Più del dove, il se e il come

Nei giorni scorsi in molti hanno portato come argomento a favore della gravità dell’attacco israeliano – spesso come l’argomento centrale e fondamentale – il fatto che questo sia avvenuto in acque internazionali, fuori dal territorio sotto la giurisdizione del governo israeliano. Se n’è discusso molto nei commenti a questo post, e sono in debito di una risposta: approfitto di questa domenica. Gianluca Aiello ha scritto che “la nave era in acque internazionali ed è avvenuto un abbordaggio militare (o pirata) senza alcun diritto. Qualunque reazione con bastoni mi pare del tutto legittima”. Barbara ha scritto che “attaccare una nave che batte bandiera turca in acque internazionali è, per il diritto internazionale, esattamente come dichiarare guerra alla Turchia”. Il sempre preciso e competentissimo Billy Pilgrim ha portato lo stesso argomento, sostenendo che un attacco in acque internazionali, “considerati stanti il principio di libertà dei mari e quello della delimitazione del mare territoriale e della zona contigua, non può [che] essere considerato che un attacco diretto al territorio dello stato di bandiera”. Altri invece, Piero e Pibianco, hanno citato pareri e fonti che darebbero legittimità all’attacco dell’esercito israeliano, seppure questo sia avvenuto in acque internazionali.

A me stupisce che nel giudicare un’azione gigantesca come quella israeliana ci si concentri soprattutto su questo punto, sul fatto che l’attacco sia avvenuto o no in acque internazionali. La domanda che vi faccio è questa: se fosse successa esattamente la stessa cosa ma qualche chilometro più in là, dentro le acque israeliane, la vostra opinione sull’attacco e l’uccisione di nove persone sarebbe differente? Davvero è quello il punto dirimente, il fatto che ai nove abbiano sparato in acque internazionali? Io fatico a crederlo, e penso che molti di coloro che hanno messo al primo punto il problema “acque internazionali” nella loro critica a Israele non retrocederebbero di un millimetro nella loro critica all’attacco, anche se questo fosse avvenuto a pochi metri da Gaza. E per carità, penso che farebbero bene: mi sconcerterebbe che davanti a un’azione così invasiva e controversa – e la morte di nove persone – la nostra opinione possa essere determinata da un vincolo meramente formale, specie considerato il fatto che la missione esplicita e dichiarata da quelle navi era proprio entrare nelle acque israeliane e forzare il blocco: sarebbe accaduto di lì a poco. Quindi: il fatto che l’attacco sia avvenuto in acque internazionali cambia molto poco il mio punto di vista. In ultima analisi, invece, quello che determina il mio giudizio sull’azione dell’esercito israeliano – quello che secondo me sarebbe giusto determinasse anche il vostro – sono le risposte a due domande.

La prima domanda è: hanno fatto bene a impedire alle navi di raggiungere Gaza? Gaza è sottoposta a embargo, dal 2007: da parte di Israele e da parte dell’Egitto. Si tratta ovviamente di una decisione discutibile, ma è stata presa con delle ragioni: il timore – fondato, provato, verificato – che Hamas, dopo il golpe, avrebbe fatto di Gaza il suo avamposto militare, importando quindi ingenti quantità di armamenti ed esportando terroristi. Potevano esserci altri modi per tutelarsi, migliori dell’embargo? Forse sì (in ogni caso gli aiuti umanitari possono passare, ma solo a seguito di una lunga procedura burocratica). Io penso che gli organizzatori della Freedom Flotilla – alcuni dalle intenzioni molto discutibili e dal desiderio dichiarato di diventare “martiri” – non abbiano fatto tutto quello che era nelle loro possibilità per consegnare quegli aiuti a Gaza. Israele già in passato aveva chiesto che le venisse consegnato il materiale, promettendo di inviarlo via terra sotto la sorveglianza di una delegazione di attivisti: era già successo in passato. La scusa di “non voler avere a che fare” con gli israeliani non regge, specie perché spesso viene dagli stessi che qualche mese fa difendevano la scelta di Gino Strada di “avere a che fare con i talebani” pur di curare le persone in Afghanistan. Io lo avevo scritto qui, Giovanni Fontana lo aveva scritto meglio qui: se la cura delle persone viene per te al primo posto, tratti con chiunque. La Freedom Flotilla aveva un altro obiettivo, al primo posto: forzare il blocco imposto da Israele a Gaza. E l’unico modo per tentare di farlo era farlo seduti su una montagna di aiuti umanitari. Anche questa è una posizione legittima, e anche questa è una posizione discutibile: secondo me tradisce l’impostazione disperatamente ideologica del convoglio – ma anche questa non è una notizia – e il fatto che avesse un preciso obiettivo politico, prima che un obiettivo umanitario. E quindi ho trovato eccessivamente indulgente parlare di “pacifisti” e “nave della pace”: la Freedom Flotilla era un convoglio di militanti pro-palestinesi intenzionati a forzare il blocco di Gaza. Legittimo, magari anche giusto: ma legittima anche la decisione di Israele di determinare da sé la propria politica interna, e non interrompere l’embargo. La mia risposta alla prima domanda quindi è sì, o meglio: era loro diritto. L’embargo è come il muro: una soluzione disperata a un problema disperato.

La seconda domanda è: hanno fatto bene a farlo in quel modo? La mia risposta è no, nel modo più assoluto. In primo luogo per una questione tecnica, militare, anche questa enfatizzata da molti: non ci si cala dall’elicottero su una barca sulla quale temi ci siano dei terroristi, sulla quale vedi a occhio nudo persone che ti stanno aspettando agitando delle spranghe. Se non lo fai per non rischiare di uccidere degli altri, non lo fai per non rischiare che vengano uccisi i tuoi: una volta su quel ponte, infatti, non può che finir male. A quelle navi era stato rivolto diverse volte l’invito a deviare la rotta e dirigersi al porto di Ashdod, ma quell’intervento non può comunque essere definito un’extrema ratio. Uno degli eserciti più potenti del mondo può e deve trovare altre soluzioni per dirottare una barca e farle cambiare rotta, dallo speronamento al sabotaggio, prima di saltare su un ponte e ingaggiare un corpo a corpo. In secondo luogo, però, c’è una ragione più grande per cui Israele ha sbagliato, sia che la sua colpa sia stata mettersi stupidamente nelle condizioni di dover sparare, sia – peggio ancora, ma non credo – che sia stata decidere deliberatamente di uccidere. La ragione è che Israele ha solo una possibilità per tenersi i suoi alleati e sopravvivere, nel lungo periodo: dimostrare di essere diversa da chi dice di combattere. Nessuno si aspetta che Hamas faccia qualcosa per non uccidere quante più persone è in grado di uccidere. Da Israele ci aspettiamo che faccia di tutto per uccidere il numero minore possibile di persone. L’azione dell’esercito israeliano sulla Freedom Flotilla dimostra – oltre allo stadio a cui è arrivata l’esasperazione e la follia dei politici israeliani: tutti – una bassa considerazione della vita umana, quando si tratta di difendersi. È una linea che Israele aveva già oltrepassato durante la guerra a Gaza, ed è una linea pericolosa. Per questo scrivevo che bisogna salvarli da se stessi: perché a un certo punto Israele ha deciso che poteva fare quel che voleva purché si fermasse un passo prima, purché dimostrasse di essere anche solo un po’ meno peggio di quegli altri. Invece no.

Sullo stesso tema:

  1. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
  2. Gaza o non Gaza/3
  3. Il nostro amico dittatore

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).