Le quote rosa ipocrite

È discretamente ipocrita l’ipotesi di «quote rosa» intese come obbligo di una «rappresentanza di genere», ciò che richiedono molte deputate ansiose di riconferma. È ipocrita a sinistra ma soprattutto a destra, e lo è in particolare in un Parlamento gravato dal Porcellum dei nominati, che tali resterebbero anche nell’Italicum. Per argomentarlo non occorre riaffermare le critiche più note al concetto di quota rosa: anche perché chi scrive, alle quote rosa, in alcuni casi è anche favorevole: perché restano ingiuste, sì, ma paiono funzionare. 

Il punto è un altro. Le quote rosa in Parlamento ci sono già, senza contare quelle che ci sono anche nei governi. Sono quote informali, non codificate, quote che raccontano l’inciviltà del nostro Paese sulla parità di genere: non il contrario. Sono quote basate sul fatto che a compilare le liste restano uomini. E sono quote che, anche se a compilarle fossero donne, resterebbero figlie del Porcellum e quindi di un clientelismo femminile al posto di uno maschile. Insomma sono quote, così come sono, che dovrebbero offendere le donne perché imperniate su un’immagine ornamentale e sul dettaglio che i singoli parlamentari non contano quasi più nulla.

In più c’è un aggravante: molte parlamentari su tutto questo ci marciano.

Ecco perché è insopportabilmente ipocrita che molte invocano le quote rosa, ora, e intanto parlano come se fossero in Parlamento per merito: non è la verità. Sono state elette in quanto donne, e ora vogliono un’assicurazione in più sul futuro. Questo in linea di massima, naturalmente.

La chiave di volta sono state le liste elettorali del 2008: da lì in poi si lasciò un certo spazio anche a candidate la cui apparenza non ingannava. Non starò a ricordare ogni due righe che la regola ha le sue eccezioni: mi fermerò alla regola, cioè alla tendenza a mettere nelle liste una quantità prestabilita di donne in quanto tali, e questo privilegiando criteri selettivi quali beltà, affidabilità complessiva e sperimentata accondiscendenza. La maggior parte delle donne che oggi si sbraccia nei talkshow, politicamente, esiste perché a un certo punto fu deciso che c’erano «tot donne» da mettere in lista – a manciate – con variante quantitativa prima che qualitativa. Non tanto quote-panda, ma quote-copertina, quote-emancipazione, quote di specifici panda tra i panda: il che, a mio dire, fu per le donne una grande umiliazione. Una seconda umiliazione fu l’applicazione dello stesso principio nella scelta dei ministri: tot donne in tot ministeri. Dal 2008 in poi il totoministri ha preso a contemplare nominativi femminili perfettamente intercambiabili soprattutto per ministeri di secondo piano (poche le eccezioni) come se le famose competenze fossero un definitivo optional. Questo accade notoriamente anche per gli uomini, senz’altro: ma se è vero che certe competenze maschili rappresentano spesso un’incognita, per certe candidate l’incompetenza d’esordio ha rappresentato pressoché una certezza, mitigata tuttavia dall’appartenenza al sesso debole. Essere donna, di per sé, è stato un buon requisito.

Pochi lo ricordano, ma dopo il 2008 ci fu persino un accenno di dibattito trasversale su questi temi: cioè sulla qualità delle liste e dei parlamentari, il diminuito status dei medesimi, i casting per le candidature, la trasformazione dei parlamentari in meri pigiabottoni capaci di restar seduti per ore, e su tutto l’impiccio che le personalità indipendenti ormai rappresentavano. Le coltri di sterco dei vari scandali che partirono dal 2010 (Noemi, D’Addario, Ruby eccetera) da un lato uccisero ogni dibattito, dall’altra impedirono – non mancano testimonianze in merito – che si passasse dalle quote rosa direttamente alle luci rosse, bloccando in itinere candidature degne di youporn. Va da sé che siamo in zona Berlusconi, ma non si creda che a sinistra i fattori affettivi, diciamo così, non abbiano avuto il loro peso: il Porcellum è stata una tentazione per tutti.

Detto questo, ferma restando la disponibilità a discutere di quote rosa in politica – perché all’estero, talvolta, hanno funzionato – mi rimane qualche dubbio di fondo specificamente legato alla politica e al potere. In sintesi: politica e amministrazione non sono la stessa cosa; le donne, si dice, sono brave ad amministrare: può essere, non fatico a crederlo. Ma io non credo che possa esistere una donna che sia una brava politica, in potenza, ma che non riesca a fare politica come meriterebbe: se non ci riesce, vuol dire che non è brava. Vale anche per gli uomini, naturalmente.

(pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera