Traviata, una recensione

Sono stato alla Prima della Scala ed è stata la prima più scialba di sempre, secondo me. A forza di levar lustrini ormai siamo all’opaco, allo smorto: mondanità zero e un sacco di gente brutta, ma di un brutto per cui, confesso, non trovo le parole, proprio tecnicamente. Pochissimi personaggi degni di questo nome, la serie B di tutto. Però banchieri, finanzieri, ex banchieri, ex finanzieri, mezzi banchieri, mezzi finanzieri, in generale gente che veniva da fermarla per dirle: confessa, io lo so, tu di musica non capisci un cazzo.

Note semi-divertenti: causa bisticci con la Sovrintendenza, al Corriere della Sera neanche un biglietto gratis; Giannelli, nella vignetta di sabato, ha confuso la Traviata con la Bohème; Natalia Aspesi ha visto la Prima under 30 ma non ha capito che Germont non è un nome bensì un cognome: ha scritto «Alfredo e Germont»; Daniele Gatti all’inizio ha ricordato Mandela, allora tutti in piedi, poi ha detto che non serviva l’applauso, poi è partito l’applauso, poi un minuto di silenzio, poi tutti seduti, poi è partito l’inno nazionale, allora tutti in piedi, poi è partito l’applauso a Napolitano, insomma un delirio; il prossimo sovrintendente Alexander Pereira, infine, si è adeguato immediatamente al clima culturale del Paese e si accompagnato a una brasiliana di 25 anni (lui ne ha 66) che peraltro era sua moglie.

Per il resto, i fischi al regista Dmitri Tcherniakov dimostrano che esiste un dio della lirica, ma le ovazioni a Diana Damrau dimostrano che non c’è dubbio, Dio è un uomo. Non saprei che altro dire: se non che ce lo meritiamo, Giuseppe Verdi. E se lo meritava il pubblico di sabato sera, confuso e felice, che applaudiva e fischiava a caso, forse il pubblico più grigio e stupido visto da anni. Pure cafone, coi suoi applausi a scena aperta soprattutto dopo il celeberrimo brindisi iniziale: imbarazzante come un pubblico che, al cinema, si alzi ad applaudire Rocky mentre corre con le braccia alzate. Un pubblico a cui, negli ultimi anni, con Wagner e non solo, ho visto applaudire qualsiasi cosa: purché fosse fredda, avara, ingiustificata, industriale, lontanissima dal preciso dettato dei musicisti, tutta roba buona per farsi notare e distrarre dalla musica e dalle storie. Però, siccome c’era Verdi, sabato hanno detto: dài, facciamo casino, inventiamoci qualcosa.

Per il resto direzione musicale dal sufficiente all’accettabile all’irrilevante, secondo me, e canto tutto sommato ordinario – per i tempi moderni – con una regia inadeguata ma perlomeno inoffensiva. La gente l’ha fischiata perché il regista è sempre l’anello debole e perché non era italiano – fatti salvi pochi loggionisti competenti, che hanno fischiato anche Daniele Gatti – e per il resto niente al mondo avrebbe potuto impedire gli applausi anzi «il trionfo» si canalizzassero su di lei, la Damrau, la Traviata di turno: ma recensire lei, come tutta l’opera, sarebbe come recensire l’inno nazionale, non gliene frega seriamente niente a nessuno.

Parliamo del titolo scaligero più rappresentato al mondo, una sacralità per i loggionisti – se esistessero ancora e non fossero pochi superstiti – e al diavolo chi dice che La Traviata è il Verdi più involuto, tradizionalista, accattivante e orecchiabile: è vero, e allora? Il primo a osservarlo sarebbe lui, Verdi, il contadinaccio: riderebbe dall’alto del suo Otello, del suo Falstaff, del suo Requiem, riderebbe di una Traviata che era già vecchia nel 1853 ma che ora è perfetta per noi che a fine 2013 ce lo meritiamo, Giuseppe Verdi. Questo Verdi, almeno: amori, mondanità, brindisi, corna, tradimenti, soldi, malattie e morte, il tutto «riattualizzato», of course, con lo sfondo di una società ipocrita e bigotta – perché la società è sempre ipocrita e bigotta – la quale non consente neanche a una escort di emanciparsi, disdetta, il tutto mentre un Paese va allo sfascio e la sua inesistente borghesia balla il solito valzer in un’atmosfera da Rotary: specchiandosi perfettamente nella platea, oltretutto. Traviata: ma che bella storia. Quante facili metafore. Qualche poveretto ha pure gridato un patriottico «viva Verdi!», che gridarlo alla Traviata sarebbe come gridare «viva la Patria» a un concerto di Claudio Baglioni. Sabato sera, semplicemente, hanno allestito uno spettacolo da sufficienza – lo scrivo da sincero odiatore di Verdi: a me ha fatto ribrezzo – e che avrebbe potuto anche essere buono: ma in Australia, in un paese anglosassone, non alla Scala.

Daniele Gatti. Applausi e (pochi) fischi ovviamente per lui, il maestro, questo onesto lavoratore col carisma di un tranviere, questo bravo professionista che pure l’aveva ammesso: la Traviata non mi attirava molto, parole sue. Ma poi si era redento e si era calato nella solita parte: «Non sarò un direttore che tira il carro della tradizione». E figurarsi: voi trovatene uno che dica «farò Verdi come qui alla Scala lo facciamo da 160 anni», uno che si accontenti dell’intensità eloquente di un Muti con la sua lettura morbidamente severa, leggermente marziale, ciò che la ripulitura di Gatti ha un po’ sfibrato. Ma va bene così, sempre meglio del primo tedesco che passa e che avrebbe appesantito tutto. Perlomeno bravo, Gatti, a non fissarsi sul zum-pa-pa toscaniniano, a non ridondare e a donare respiro cosmopolita a valzer e danze – noi vegliardi siamo ancora convinti che l’opera fosse ambientata a Parigi – e bravo ad asciugare e ad accelerare, talvolta magari troppo: ma va bene, benissimo. Ecco: se nel finale avesse evitato di alzare i violini di un’ottava (come da acerba indicazione di Verdi, poi rinnegata) saremmo comunque sopravvissuti: le ascesi da Lohengrin non c’entrano un accidente, il contadinaccio oltretutto era ateo: la morte, per lui, era un problema dei vivi. Il vero merito di Gatti forse è un altro: è quello di aver abbassato il volume ai cantanti, letteralmente, e non solo perché la Traviata è al chiuso, è domestica, intima, dignitosa, fisicamente ravvicinata al pubblico nella parte avanzata del palcoscenico: ma perché, se non disturba, era l’indicazione di tal Giuseppe Verdi. Ma al pubblico non gliene frega niente di tutto questo: voleva il zum-pa-pa più tradizionalista possibile, e Gatti tutto sommato non gliel’ha dato, ha cercato di fare il Carlo Maria Giulini e quelli l’hanno punito. Atmosfera zero: è il titolo di un film, ma è pure quella creata da Gatti. Non ha colmato le lacune dei cantanti: le ha evidenziate.

Violetta Valery. Applauditissima (anche a scena aperta, ovviamente dopo l’Addio al passato) com’era prevedibile e scontato. La nordica Diana Damrau (43 anni) ha fatto Violetta chissà quante volte e ha la sensualità di un abete, ma anche un’estensione vocale fisicamente notevole. A me non piace, troppa esuberanza, e poi con quel fisico era poco credibile soprattutto come malata e come tisica: ma va a gusti. Più che altro non c’entrava un tubo col personaggio che doveva interpretare: troppo temperamentale, pingue, sana come una balena, poco prostituta (potrebbe non dispiacerle) e, come cantante, pochissimo sofferta, dolente, semmai capricciosa, pericolante nel vibrato. Non avrebbe potuto fare di meglio, ma non è un complimento per lei, è una disgrazia per chi l’ha scelta. Se è vero che Verdi era maniaco delle sfumature e delle mezzevoci – soprattutto per La Traviata – c’è da chiedersi quanto abbia potuto faticare, Gatti, per metterle un freno: monologhi interiori, colloqui intimi, malinconie e lacerazioni, insomma, c’era poco da urlare. Lo stesso Verdi, per questa parte, tese a scegliere soprani meno sonori e più ispirati, al punto da prediligere – scrisse – interpreti che per altre opere avrebbero sfiorato la mediocrità. Nel caso della Damrau c’era da rovesciare le parti, le sue virtù sono il suo limite (ha più voce che mezzavoce, nonostante gli sforzi dell’ultimo atto) ma in ogni caso è piaciuta moltissimo e allora va bene così. A voler rompere le scatole ci si poteva divertire a cercar traccia delle divergenze che direttore e regista avevano lasciato percepire in allegre interviste. Tchernaikov ha straparlato di una Violetta glamour e per niente vittima, «un carattere forte, capace di tener testa agli uomini, di valutarli, di avvicinarli e allontanarli a suo criterio», incapace d’amare, emblema dei «giovani che preferiscono sempre più i rapporti virtuali su Internet». Gatti invece ha detto tutt’altro («Traviata è la scandalosa denuncia di un sopruso compiuto da una società verso una donna») e naturalmente ha ragione lui, anche perché d’accordo le licenze artistiche, ma Violetta era pur sempre malata di tubercolosi e il «sempre libera» avrebbe dovuto esaltarne la febbre, l’eccitazione nervosa alternata a sconforto. Ma queste, nostre, sono seghe mentali, mere illusioni che qualcuno abbia badato anche a queste cose. Violetta è piaciuta, applausi a scroscio. È piaciuta a dispetto delle ambiguità di quei giornali che hanno ripetutamente definita «adattissima al ruolo» o che l’hanno liquidata come una che «non ha faticato a calarsi nella parte». Una cortigiana.

La famiglia Germont. Alfredo l’ha interpretato un polacco, Piotr Beczala, uno che l’aveva fatto mille volte al Metropolitan e che – anche se l’umanità gli avrebbe preferito un Francesco Meli – non si può dire che non conosca la parte: speriamo allora che sabato, semplicemente, fosse emozionato o poco in forma. Io ho sentito stonature, passaggi buttati lì e in generale un livello non da Scala. Naturalmente, nelle interviste, aveva sparato che la direzione e la regia «l’hanno spinto a rivisitare completamente il personaggio», ma anche qui: figurarsi, trovatene uno che dica «io faccio Alfredo come sempre, come riesco, come tutte le altre volte». Piuttosto, anche qui: speriamo che Gatti abbia almeno provato a spiegargli che non c’erano disfide, nella Traviata, né storie di spada, non c’era da partire per le crociate ma solo da passare in cucina o nella sala da ballo.
Per quanto riguarda il serbo Željko Lučić, cioè Germont padre, l’hanno applaudito meno: sarebbe bello poter dire che è perché gli è riuscita la parte, una tra le più biasimevoli mai tratteggiate da Verdi. Giorgio Germont non ha pietà per lei né per lui, bigotto fondamentalista com’è («Dio mi guidò») tanto che alla fine ha il fegato di dire alla donna: sei vecchia, più che malata. Poi lei muore. Ma lui non ha carisma né severità né registri. Lei muore, si diceva, e secondo il bovarista Paolo Isotta (Corriere della Sera) «Verdi l’accompagna con una solennissima marcia funebre che potrebbe addirsi a un Sigfrido». Bum. Arturo Toscanini gli avrebbe risposto che non è morto Sigfrido, «ma solo una piccola fiammiferaia». Nel caso, una squillo d’alto bordo.

Dmitri Tcherniakov. L’impressionante quantità di sciocchezze sparate dal regista in centomila interviste raggelanti – un misto di allucinazioni cinefile e temini di quinta elementare – faceva temere il peggio: invece si è dimostrato soltanto inadeguato. Gli dobbiamo gratitudine, almeno, per tutto ciò che non ha fatto: ma ciò non toglie che abbia tagliato la Traviata con luci da musical e, specie all’inizio, da grandi magazzini. Non è chiaro come abbia potuto, Tcherniakov, parlare di regia «cinematografica» che, nientemeno, voleva «unire il genere operistico con l’arte psicologica moderna come succede nei film di Bergman o Antonioni». Voleva trasmettere una vividezza borghese che sconfinasse con lo squallore, e bene, c’è riuscito. L’insieme è claustrofobico: il primo brindisi è subito cafonal: dopodiché, a ruota, lo è anche tutto il resto. Il doppiopetto e la pashmina di papà, gli amici e le donnine sul pacchianello andante, l’Alfredo un po’ vitellone, gli arredi da nuovi ricchi – più quelli della Russia di Tchernaikov, forse – e poi la platinatura di lei, volgarotta ma comune, come una qualsiasi starlette tv, nel senso: come una di noi. Il tentativo era quello di umanizzare e de-cortigianizzare Violetta, che progressivamente diventava una brava donna che faceva la pasta in casa. Tchernaikov – uno a cui Putin non farebbe adottare bambini – ha proceduto per sottrazione e ha ammorbato tutto con luci e atmosfere da telenovela. Violetta muore su una sedia di legno chiaro – stile Ikea – vicino a bottiglie, medicine e a una trapuntina. Ha le ciabatte. Forse voleva solo un riscatto e avere un marito, dei figli: ma la società cattiva non gliel’ha concesso. Perché? Boh, nell’Ottocento l’avremmo capito, ma riattualizzato non è chiarissimo. Non sappiamo in Russia, ma in Italia le cortigiane dismesse hanno un gran mercato. La sedia genere Ikea che accoglie Diana Damrau, in ogni caso, non ha nulla a che vedere con la poltrona che accolse Maria Callas negli anni Cinquanta, diretta da Giulini e Visconti. Tutto il resto, neanche.
Se mai Tcherniakov dovesse tornare alla Scala, una preghiera: fatelo tacere. E non fatelo soprattutto scrivere, Tchernaikov: perché le «note di regia» peraltro pubblicate sulla guida all’ascolto (le trovate sul sito della Scala, vi prego, andatele a leggere) sembrano scritte da un Francesco Alberoni involuto, se possibile. Il buon nome del Teatro, e questo lo dico senza la minima ironia, non dovrebbe permetterlo. Per il resto, solito discorso, ora e per sempre: rispettare un minimo le didascalie degli autori non significa cadere nel nostalgismo, significa fare il proprio lavoro. Altrimenti, dell’opera, sei solo parassita, indegno specchietto per luce riflessa.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera