Poi dice il dialogo

Ci sono tre episodi, tutti risalenti a venerdì scorso, che danno un’idea degli autentici schieramenti in campo in tema di giustizia. Gli episodi sono questi: un’uscita di Ilda Boccassini sul protagonismo dei magistrati e sulla loro mancanza di autocritica, poi un pubblico dibattito alla festa di Fratelli d’Italia (presenti Marco Travaglio, Filippo Facci e Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione magistrati) e infine una polemica sul giudice Esposito ancora tra Travaglio e il giornalista Massimo Fini, rispettivamente vicedirettore e collaboratore del Fatto Quotidiano.

La Boccassini – dico la Boccassini, mica Sandro Bondi – durante la presentazione di un libro ha detto che «certi pm usano la giustizia per altri scopi… In questi vent’anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un’autocritica o una riflessione… La magistratura è sana, ma serve una riforma. Alcune indagini sono servite ad altro per gli stessi magistrati». Cioè per carriere varie, per entrare in politica. Ilda Boccassini ha parlato apertamente di colleghi «portatori di verità assoluta», del consenso sociale inteso come «una cosa sbagliatissima, una patologia» nonché del disagio provato ai tempi del pool di Mani pulite, «quando c’erano le manifestazioni e la folla ne scandiva i nomi». Non ha nominato Berlusconi, ma ha fatto capire chiaramente che è stato la controparte di «una conflittualità talmente alta da impedire la riflessione nella magistratura». Insomma, la magistratura è un corpo sano, ma «quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni».
Nota: la Boccassini ha evidenziato chiaramente la necessità di un’autocritica e nondimeno di una riforma, non ha tirato solo stoccate a Ingroia come qualcuno ha detto per ridimensionarla; ha parlato degli ultimi vent’anni e di una mancanza di riflessione dell’intera categoria. Chiaro? Chiaro. Il video è su youtube.

Poi c’è l’episodio di Travaglio e Massimo Fini: quest’ultimo, giornalista non di primo pelo e rinomato sicuramente tra i cosiddetti forcaioli – ai tempi di Mani pulite scrisse cose incredibili – a sua volta ha trovato un punto di non ritorno nella vicenda dell’indifendibile giudice Esposito, oggetto di attenzioni del Csm dopo la sua sconclusionata intervista al Mattino in cui aveva anticipato le motivazioni della sentenza della Cassazione contro Berlusconi: «Lontani i tempi felici», ha scritto Fini, «in cui il magistrato si esprimeva solo per atti e documenti e, per evitare equivoci, frequentava pochissime persone… Oggi i magistrati esternano a tutto campo e spesso fanno trasparire le loro opinioni politiche». C’è la libertà di espressione, ma ci sono «cariche e funzioni che impongono implicitamente dei limiti». Fini ha fatto l’esempio di Napolitano: non può certo esprimersi a favore di questo o quel partito, non è il caso, «in ogni caso un giudice che anticipa le motivazioni di una sentenza che ha contribuito a stendere non si era visto mai. Esposito è un cretino o, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo». Poi la critica a Travaglio: «Ha scritto che è naturale che un magistrato non possa provare simpatia per un personaggio che, un giorno sì e l’altro pure, spara a palle quadre sulla Magistratura… ma Esposito è indifendibile. In prospettiva, credo che nella ventilata riforma della Giustizia vada inserita una norma che vieta al magistrato di entrare in politica prima che siano trascorsi cinque anni da quando ha lasciato la toga. Perché un magistrato che passa direttamente dalla sua funzione alla politica getta inevitabilmente un’ombra sulle sue attività pregresse. Basta pensare ai guasti provocati da De Magistris e Ingroia». Chiaro? Chiaro. Anche lui parla di una mancata riforma della giustizia.

Ora la risposta di Travaglio, che in pratica non ha risposto, non almeno sulle questioni più importanti e generali che Massimo Fini aveva sollevato. Il vicedirettore del Fatto si è limitato a difendere il giudice Esposito senza il minimo tentennamento: «Non è né un ingenuo né un cretino: basta leggere la motivazione della sentenza che ha firmato». Cioè: ora il saper stendere le sentenze è diventato un metro di misura dell’intelligenza. Poi Travaglio è passato a una risposta da avvocaticchio («l’ordinamento punisce soltanto le esternazioni dei giudici su processi non ancora definiti, e quello già lo era») e in sostanza ha difeso Esposito in tutto e per tutto, senza se e senza ma, anzi elogiandone la «sapienza giuridica» e ignorando completamente le altre fondamentali questioni che Massimo Fini aveva messo sul tappeto: nessuna parola sul protagonismo dei magistrati, sul loro opinionismo politico con annesse carriere, su Ingroia, De Magistris e tutti il resto: temi di cui persino Ilda Boccassini aveva appena ammesso l’esistenza macroscopica. Il giudice Esposito è perfetto così com’è, nessuna critica, nessuna autocritica nell’averlo difeso, insomma una duttilità degna del granito.

Il terzo episodio meriterebbe una paginata di racconto. Venerdì, a un dibattito durante la festa di Fratelli d’Italia, presente Travaglio e il presidente dell’Anm, avevo tentato di elencare quelle che erano e sono, a mio dire, le colpe della magistratura. Per favorire un dibattito vero avevo scelto una linea decisamente morbida (anche troppo, detto ora) che non disdegnasse le colpe della politica, di Berlusconi, dell’avvocatura e anche le colpe che la magistratura non aveva per niente. Non è servito. Mi sono solo dato la zappa sui piedi. Lo stravolgimento del Codice del 1989, la mancata parità tra accusa e difesa, l’abuso della carcerazione preventiva, la legislazione d’emergenza come pretesto, i danni per l’economia, l’abuso e diffusione arbitraria delle intercettazioni, i magistrati come ultracasta (carriera automatica, orario evanescente, ferie smisurate, la necessità di una riforma, impunità e inamovibilità uniche al mondo) oltre alle stesse evidenze già ammesse da una come la Boccassini – mica un Facci qualsiasi – e anche da Massimo Fini: ho cercato di parlare di questo.

Bene: né Marco Travaglio né il segretario dell’Anm – perfettamente sovrapponibili – hanno dato una risposta di merito. Non hanno risposto proprio, non hanno ammesso l’esistenza di nessuno dei temi per come erano stati elencati e descritti. La mancanza di critica e autocritica – o perlomeno la disponibilità ad ammettere l’esistenza di un problema, così, tanto per tentare di discuterlo – è equivalsa a zero. Zero. Persino il caso Tortora, ricordato dettagliatamente dal collega Antonello Piroso durante il dibattito, è stato liquidato come una cosa «risalente a 30 anni fa, quando era in vigore il vecchio Codice». Marco Travaglio ha detto che «i guai della giustizia sono altro dalla magistratura» e che il tasso di corporativismo della medesima è «fisiologico».

Ora: anche i cani sanno che la giustizia italiana attende una riforma necessaria, e si litiga soltanto su come si debba farla: ma Travaglio ha rovesciato la questione e ha spiegato che le riforme della giustizia, negli ultimi vent’anni, sono state «più di cento», confondendo leggi e leggine con una riforma vera e strutturale (e costituzionale, per forza di cose) che riassetti la nostra giustizia allineandola al resto d’Occidente. Si è spinto a dire, senza giri di parole, che i governi e la classe politica degli ultimi vent’anni – tutti, indistintamente – potrebbero aver fatto apposta a lasciare la giustizia in un’inefficienza di cui i magistrati non hanno evidentemente colpa: così da poter delinquere, i politici, per vent’anni, senza timore di essere beccati. Un po’ come – questo lo noto io – la questione della «trattativa», partita nel 1991 e, secondo Travaglio, proseguita per vent’anni con le più disparate e incredibili connivenze. In tutto questo, il presidente dell’Associazione magistrati annuiva e si riconosceva – ha detto – nell’analisi di Travaglio.

Cioè: io sono stanco. Non è neanche più una questione di schieramenti, di faziosità, di linguaggio, di divergenze anche radicali di opinioni. È questione che parlare con questa gente non serve a niente, perché è gente che ignora dolosamente anche la realtà più palese e stranota. O sono paranoici o sono in cattiva fede. Propendo per quest’ultima ipotesi.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera