Don Giovanni, un cretino

5 dicembre

Mercoledì sera c’è la Prima della Scala e ci sarà il Don Giovanni di Mozart: si sprecheranno titoli e valutazioni tipo «La Prima nell’era dell’austerity» (con infiniti commenti sul rinnovato stile, la sobrietà, il loden ecc.) e ci saranno le contestazioni di rito fuori dal teatro, e la sfilata delle autorità e della mondanità, sarà presente questo, sarà assente quello, Tizia sarà inappuntabile e Caia sbracata come una vacca. Tutto normale. La gente – divisa tra un terzo di competenti, un terzo di incompetenti e un terzo di capre – si annoierà fisiologicamente durante il secondo atto che però passerà abbastanza in fretta (tre ore e 15 in tutto) il che parrà un niente dopo le fatiche wagneriane degli anni passati, vere specialità di sua maestà Daniel Berenboim. La maggioranza del pubblico resterà comunque desta e soprattutto divertita in particolare dalla regia di Robert Carsen, uno di quei tanti originaloidi («geniale», of course) a cui di rispettare le parvenze dell’opera originale gliene frega meno di zero, anzi: farcirà l’opera, da quanto inteso, di vecchie trovate stile «teatro nel teatro» (il fantasma del Commendatore pare che spunterà dal palco presidenziale, speriamo che a Napolitano non gli prenda un colpo) sicché i meno avvezzi diranno «ooohhh» e così alla fine avremo i soliti dibattiti sulla regia, visto che ormai è l’unica cosa di cui si può seriamente discutere. Dovrebbe esserci anche Mario Monti, sì.

Ma stiamo tralasciando i fondamentali, dunque ricominciamo da capo: mercoledì sera il maestro Daniel Barenboim dirigerà il Don Giovanni, alias «Il dissoluto punito» che Mozart rappresento per la prima volta a Praga il 29 ottobre 1787, quando aveva 31 anni e cioè quattro anni prima di morire. Il cast è di grande livello: c’è un istrionico Peter Mattei (Don Giovanni) e un’inciccionita Anna Netrebko (Donna Anna) e poi un’autorevole Barbara Frittoli (Donna Elvira) e ancora Giuseppe Filianoti (Don Ottavio) e Bryn Terfel (Leporello) e altri ancora. Stiamo parlando di una delle opere più famose di tutti i tempi (la seconda che Mozart scrisse su libretto di Lorenzo Da Ponte) e a suo modo di un punto di riferimento della cultura occidentale, per quanto mutuato in cento sfumature: la versione mozartiana non ha fatto che cristallizzare con incredibile successo (soprattutto postumo) una versione tra le numerosissime che sono state caricate di valenze sempre nuove e diverse, un po’ come fa lo stesso personaggio di Don Giovanni durante i tre atti.

Anche per questo, guardando a mercoledì sera, tremano i polsi: l’opera è un’alchimia vulnerabile tra il drammatico e il burlesco, una contaminazione – non del tutto compresa, all’epoca – tra l’ordinaria opera buffa italiana e una vena drammatica che già bussava alle porte; far pendere la bilancia dalla parte sbagliata è davvero un attimo, tanto che i liquidatori del Don Giovanni come «opera buffa» andrebbero scaraventati nell’inferno degli artisti assieme a Don Giovanni. Ecco perché tutto rinfranca e tutto preoccupa, a margine di questa nuova produzione: che il regista possa eccedere nel burlesco, che il maestro Daniel Barenboim possa eccedere nel drammatico – com’è nelle sue corde, prevalentemente «tedesche» – e che la somma possa non dare il tutto, cedendo al notorio terrore del «romantico» e restituendoci qualcosa che con gli intenti originari di Mozart non abbia semplicemente a che fare.

Figurarsi, già accadde a suo tempo: l’opera in origine si concludeva con lo sprofondamento di Don Giovanni negli inferi – in consonanza con l’attacco dell’ouverture, del resto – ma poi il finale fu cambiato come meglio di chiunque ha spiegato Charles Gounod nel 1890: scrisse che i brani musicali che seguono l’inghiottimento del libertino «appaiono fuori luogo dal punto di vista drammatico» e dunque «Che un genio come quello di Mozart non abbia rinunciato a questo epilogo posticcio la dice lunga sul bisogno del pubblico di allora di avere una conclusione morale esplicita». Ecco: siamo in tempi di crisi e anche il nostro pubblico, forse, ha bisogno di conclusioni morali esplicite. Di ciò è legittimo essere terrorizzati, perché il vero Don Giovanni mozartiano è un personaggio che piacerebbe più senz’altro a un Berlusconi che a un Mario Monti. C’è il rischio che ne facciano strame. Anche del vero Don Giovanni, voglio dire.

6 dicembre

Nel rispolverare la biografia di Mozart (nome completo: Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart, detto Amadeus) vien voglia di ironizzare sull’articoletto che il Corriere della Sera ha dedicato alla «Primina» di domenica scorsa: quella riservata ai giovani, anzi ai «ragazzi» come ha scritto la purtroppo inossidabile Giuseppina Manin. In tempi di retorica dei bamboccioni (nonché di futuro regolarmente «rubato ai nostri figli») si descrivevano gli under-trenta che presenziavano alla Scala come degli imbelli di 13 anni al massimo, e comunque «giovani» o meglio «i giovani». Del resto si titolava: «Don Giovanni seduce i giovani», «Gli Under 30 conquistati anche dalla regia», «i ragazzi accorsi numerosi per questa primina inventata per loro dal sovrintendente».

Mancavano solo i giocattoli e il karaoke. Lirico, magari: esiste anche quello. I pre-trentenni oggigiorno sarebbero «un nuovo pubblico», e il bello è che è anche vero, lo sono, eppure è difficile non sorridere nell’apprendere della loro «curiosità per una forma di spettacolo insolita». Perché vedete, è vero, spesso gli under 30 sono ancora e davvero dei ragazzini, e tralasciamo tutto il discorso sul benessere e sull’allungamento della vita media; sta di fatto che Mozart, a trent’anni, non solo aveva appena composto quel Don Giovanni che loro hanno potuto ammirare, ma il compositore era pure a fine carriera – lunghissima – e sarebbe schiattato entro cinque anni. Conosciamo le obiezioni: Mozart fu schiavizzato dal padre e non conobbe una vera infanzia e una vera adolescenza se non da fenomeno musical-circense, e poi un genio è un genio, la vita adulta cominciava prima, insomma le solite cose.

Sarà, eppure la Storia ridonda di personalità intraprendenti che furono se stesse da subito. Restando ai musicisti: i più, appena possibile, si districarono dalla bambagia e si buttarono a pesce addosso alla vita. Rossini a 21 anni era già celebratissimo, e non era il solo. È vero, sì, la maggioranza dei compositori ha dato il meglio di sé nella seconda metà della propria vita, se non addirittura negli ultimissimi anni: quando, cioè, il soffio dell’imperscrutabile suggerisce commiati e testamenti che hanno fatto la storia della musica. Beethoven a trent’anni non era Beethoven (o meglio: non lo sarebbe oggi) e Wagner a quell’età non aveva neppure composto il Tristano; senza contare i casi di Cajkovskij, Strauss, Mahler, tanti altri. Si rimarca sempre che i medici non riuscirono a salvare Mozart, è ritenuto stupefacente che sia morto a 36 anni non compiuti: ma è anche vero che Giovanni Battista Pergolesi, superbo compositore di musica sacra e autore dell’immortale Stabat Mater, morì a 26 anni: ma aveva fatto in tempo a diventare Pergolesi. Carl Maria von Weber, uno dei più influenti musicisti tedeschi a cavallo tra Sette e Ottocento, morì a 39 anni. Franz Schubert, magnifico e prolifico compositore austriaco, morì a 31 anni. Fryderyk Chopin, l’eccelso pianista polacco, a 39. Georges Bizet a 36. Significa qualcosa? Non sappiamo, ma nel leggere l’articolo sugli under 30 trattati come ospiti di una scuola materna (a torto o a ragione, non sappiamo) tornavano in mente queste cose, tutto qui.

Tornava in mente Mozart, la sua vita che in quel periodo – 29 ottobre 1787, esordio praghese del Don Giovanni – era diversa da come molti la immaginano oggi, forse.
Si era trasferito a Vienna nel 1781, dove avrebbe cambiato undici appartamenti in un decennio, alternando domicili di rappresentanza a discrete stamberghe. Oggi gli itinerari turistici ti infilano soltanto nella Figaro-haus al numero 5 della Domgasse, una casa grande e luminosa in cui Wolfgang trascorse gli anni migliori. Mentre la casa sulla Rahuensteingasse 8, dove morì in povertà nel 1791, non esiste più: c’è un grande magazzino. Per farsi perdonare hanno piazzato una targa striminzita e un «Mozart shop» con cioccolatini e magliette.

A Vienna, comunque, il compositore si era innamorato di Aloysia Weber (cugina del compositore Carlo Maria von Weber) ma aveva finito per sposarne la meno pretenziosa e più bruttina sorella Constanze. Lui aveva 26 anni e si sposarono il 4 agosto 1782 contro il parere del padre Leopold, che a una prima occhiata giudicò la ragazza come una mezza balorda e probabilmente ci pigliò pure. Ma quello era stato un buon periodo: il suo Ratto del serraglio era piaciuto all’Imperatore Giuseppe II e così pure al pubblico viennese, anche perché era cantato in tedesco e non nel solito italiano. Mozart in tal senso rappresentò una sintesi formidabile tra le culture della Germania e del Belpaese, assimilando e rifondendo stili e linguaggi musicali che parevano inconciliabili: da Nord prese la cultura strumentale, l’austerità del contrappunto e certa drammatica impetuosità, da Sud la cantabilità virtuosa, l’estro e la teatralità del modo di fare. Benché marginale politicamente, l’Italia godeva di una supremazia musicale ancora indiscussa sia per numero e diffusione dei teatri sia perché l’italiano era la lingua internazionale della musica. Nei paesi di lingua tedesca invece l’arte strumentale si concentrava soprattutto attorno alle cappelle ecclesiastiche e alle corti dei principati, e al musicista che operasse da libero professionista non erano ancora abituati. È quello che Mozart provò a fare a Vienna, sorta di primo freelance della storia della musica: cercò di amministrare da solo il proprio talento. Un ruolo che ebbe un suo prezzo, altro che bamboccioni.

Dopo un periodo in cui gli erano piovute offerte da ogni parte, infatti, era ricominciata la sfortuna. Compose a ciclo continuo, ma l’inizio del declino coincise col trionfo de Le nozze di Figaro: nella Parigi pre-rivoluzionaria aveva già avuto esiti travolgenti Le marriage de Figaro (storia di una coppia di servi che ha la meglio su un padrone che vorrebbe imporre lo «ius primae noctis») e Mozart riuscì a musicarla anche a Vienna e a farla tradurre in italiano dal librettista Lorenzo Da Ponte, lo stesso del Don Giovanni e del Così fan tutte: l’imperatore aveva proibito l’opera e il compositore dovette eliminare tutte le scene con riferimenti politici, ma fu comunque un clamoroso successo soprattutto a Praga. A Vienna, invece, l’imperatore emanò addirittura un decreto per bloccare le repliche del Figaro e tra Mozart e l’aristocrazia di corte, in piena fase pre-rivoluzionaria, si ruppe qualcosa. Di fatto le ordinazioni di opere vennero a calare. È una fase di declino: pochi concerti, qualche lezione privata e la sostanziale indifferenza degli impresari. Ecco: un’opera meravigliosa come il Don Giovanni giunge in un momento come questo, e non ebbe i risultati sperati. A essere precisi, fu un fiasco a Praga e soprattutto a Vienna. La morte dell’imperatore Giuseppe II, che a suo modo non aveva lesinato simpatie all’irriverente Amadeus, non migliorò le cose. Tantomeno la morte di Raimund Leopold, il figliolino. A Mozart moriranno quattro figli e ne sopravviveranno soltanto due.

Il compositore nell’ultima fase della sua vita non riuscì a trovare allievi neppure con degli annunci sui giornali. Dovette impegnare l’argenteria e presto avrebbe venduto anche il suo cavallo: un’inclinazione alla depressione ci stava tutta. Oltretutto beveva come un otre e Costanze era ancora più incapace di lui di gestire il denaro. Il viso e le mani gonfie sono state accostate al decorso di una malattia renale, ma l’unica cosa certa è che Mozart continuava indefesso a comporre: va detto che dimostrò una forza di volontà straordinaria a dispetto di certa iconografia da farfallone. Mozart non era il Don Giovanni che rappresentò, ma avrebbe voluto esserlo. I più, questa sera, penseranno segretamente la stessa cosa.

7 dicembre. Ore 22.45

Che strana Prima della Scala. Non faceva freddo, non ci sono state proteste preoccupanti (era tutta brava gente e la cosa più sovversiva, per il resto, è stata un uovo tirato contro un’auto del presidente del Consiglio) ma per il resto tutto pareva più sottotono che sobrio. Anche il pubblico sembrava indecifrabile: non è vero che è sempre lo stesso, ieri sera per esempio c’era un tasso di signorilità apparentemente più alto – mente più basso sembrava l’indice di chirurgia estetica – e però è lo stesso pubblico che pochi minuti più tardi si è rivelato sorprendentemente buzzurro nell’applaudire tra un’aria e l’altra, persino tra un recitativo e l’altro, come a un recital per giapponesi.

Si perdoni il preludio in minore – come quello, terribile, che apre l’opera – ma era davvero una strana Prima della Scala. Come tante altre, all’apparenza: era e resta la vera avanguardia del potere, anche perché le banche, qui, comandano già da una vita. Basta scorrere l’Albo dei Fondatori: a parte quelli di Diritto (tipo lo Stato, queste sciocchezze qui) l’unico Fondatore pubblico, in gerenza, resterebbe la Provincia: che infatti è stata appena abolita. Tra i fondatori privati permanenti, invece, eccoti Cariplo, Banca Popolare di Milano, Intesa San Paolo, Banca del Monte di Lombardia, Generali, più altri imbucati storici tipo Pirelli, Fininvest e Tods. Non parliamo del consiglio di amministrazione, qui sciorinato parzialmente: Ermolli-Micheli-Passera-Ponzellini-Scaroni. E i ministri, anzi «le presenze istituzionali»? Ornaghi-Cancellieri-Passera-Giarda eccetera, coi politici di vecchio conio che non se li è filati nessuno, anche se i biglietti loro riservati – e pagati – erano più di cento. Hanno fatto eccezione solo Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni, corteggiatissimi da taccuini e telecamere. Tutto sommato, considerando che sul palco reale sedevano Monti e Napolitano, la nuova Italia tecnica & finanziaria era già tutta qui, forse da anni: e noi facevamo finta di niente. Ed era un’Italia compiaciuta, bella in tiro, ma sobria, loden dappertutto, il tutto abbordabile e democratico come può esserlo una prima della Scala, appunto: 2400 euro a biglietto, duecento ortensie e tremila rose su palco reale. Fuori a tirare pomodori (ma sobri, con poca polpa) in effetti non c’erano Mario Capanna o i soliti cretini di studenti: forse virtualmente, questa volta, c’eravamo noi tutti.

Se non fosse che poi siamo entrati tranquillamente a guardare il Don Giovanni e a scrivere poi questo articolo. Lo spettacolo, dunque. L’impressione è ambivalente come lo stesso Don Giovanni mozartiano, ma senza entusiasmi di sorta: come se non ci fosse granché da elogiare e tantomeno da demolire. Da principio avevamo semplicemente pensato che ci avessero fregato: Berenboim e company in effetti sono riusciti a mandare in scena un Don Giovanni non banale ed equilibrato senza essere insapore, esplicitamente votato, per una volta, a esaltare il dissoluto come figura non solo ambigua ma anche vincente. Così sembrava.

Preoccupava Barenboim, sinceramente: ma se l’è cavata bene. Ha iniziato con un ritardo poco scaligero e ha proposto un suono agile anche se non troppo leggero; forse, ecco: poco elastico, un po’ sovraesposto nelle percussioni e non sempre trasparente negli archi. Di Barenboim, ebreo cosmpolita, preoccupava che il suo radicamento teutonico potesse avere la meglio sull’irrisolta alchimia tra il drammatico e il burlesco che il Don Giovanni rappresenta; le versioni tedesche restano quelle che furono, Furwangker era addirittura tragico, Karajan lo suonava con 14 violini primi e la sostanza restava priva di umorismo e poco incline ad accettare il Mozart «italiano», quello che lo stesso Mozart in parte era e voleva essere. Difficile conciliare il «dramma giocoso» e «l’opera semiseria» nel romanticismo tritatutto dell’Ottocento tedesco, ma eccoci, siam qui per questo. Qualche lettura su Barenboim poteva incoraggiare: aveva affermato che non c’era stato periodo che avesse passato senza suonare Mozart (e vabbeh) e poi che l’aveva sempre affascinato la mescolanza di profondità e leggerezza, laddove (lo scrisse in La Musica sveglia il tempo, Feltrinelli 2007, che ieri oltretutto vendevano nella libreria della Scala) a suo dire «in Mozart l’allegria è sempre acompagnata da qualcosa di cupo, e il cupo non è mai del tutto privo di allegria». E ancora, su misura per il Don Giovanni: «Mozart diceva che nella vita non c’è niente di morale, immorale o amorale, a meno che l’essere umano non faccia della propria vita qualcosa di morale, di immorale o di amorale». Incoraggiante. Ma c’era comunque di che essere timorosi. Tutto bene, dunque?

No, ma non è detto che c’entri Barenboim. Anzi. Lui non ha sbagliato nulla, o quasi. Qualche ulteriore elogio meriterebbe semmai la sua scelta di lasciar respirare certi recitativi a dispetto di altri sin troppo velocizzati: vantiamo una lingua che merita tutta la calma e la varietà chiaroscurale possibili, qualcosa che la rende già una melodia di per sé; restituire autonomia al canto non serve soltanto a delineare un personaggio, ma anche a farci capire che cavolo di storia si sta intrecciando sul palcoscenico. Diciamo che l’operazione è riuscita per metà: anche perché, con certe voci di oggi, c’è poco da fare. Non si capisce granché, nel cantato e nelle voci di oggi: se poi le voci appartengono a stranieri foneticamente non preparatissimi nella nostra lingua (come ieri, palesemente) la morale è che i sottotitoli servono comunque, anzi.

Qual è il problema, allora? Forse uno dei problemi abbiamo quasi vergogna a confessarlo, perché è sempre la stessa storia: regia e scene e costumi. È strano anche questo: a noi l’insieme è piaciuto, almeno su un piano razionale, ma ciò che lo spettacolo ne ha guadagnato, probabilmente, lo ha perso in altre direzioni. I colori caldissimi hanno scacciato il freddo dei pannelli scorrevoli, ma non è bastato. L’assenza di profondità è stata devastante, a tratti sembrava un palco di teatro-teatro. È vero, in fondo l’opera è proprio teatro allo stato puro: e il primo a evidenziarlo, anche musicalmente, fu proprio Mozart. Però, a furia di pannelli che salgono e che scendono, mancava prospettiva, mancava, anche qui, calore e scenografia in senso stretto. Il minimale, nella scena finale, sapeva di povero e basta. Con quei vestiti, poi. Quegli smoking. Il sipario strappato iniziale, con La Scala che si specchia in se stessa (un vero e proprio specchio fluttuante) era di grande effetto, c’è da riconoscerlo: un effetto anche simbolico che esplicitava il proscenio di quel mattatore, Don Giovanni, che per definizione resta impossibile imprigionare anche in un solo e identificante registro di voce.

In questo senso il cast era annunciato come «di grande livello» e tutto sommato non ci si può lamentare, ma Don Giovanni, cioè Peter Mattei, non ci è piaciuto per niente. Troppo scanzonato, cinico, distratto, ignavo, mai eclettico e realmente sfuggente. Mai eroico, soprattutto, mai pregnante, un personaggio né da odiare né da amare più di tanto. Sempre vestito come George Clooney. Forse sarebbe stato meglio quel fico del suo sostituto, Ildebrando D’Arcangelo. Don Giovanni dovrebbe essere privo di un modus riconoscibile, essere capace, cioè, di immedesimarsi in un qualsiasi Leporello e quindi nel famoso uomo della strada di cui conosce gli umori e le debolezze. Invece, alto e allampanato com’era, Peter Mattei restava inconfondibilmente se stesso. L’insopportabile Donna Anna, per contro, è stata ben portata dalla sensuale e non magra Anna Netrebko, mentre l’intramontabile Barbara Frittoli (Donna Elvira) è stata aristocratica quanto basta. Giuseppe Filianoti (Don Ottavio) era pateticamente e improbabilmente eroico, come d’uopo, e Bryn Terfel (Leporello) tremarellante ma non troppo, non abbastanza da macchiettizzarsi. Chi c’è piaciuto di più, colpo di scena, è stata Zerlina alias Anna Prohasca, una che peraltro la faccia da Zerlina ce l’ha di suo. Resta un personaggio straordinario, Zerlina: emblematicamente sincera col suo fidanzato Masetto (che ama) ma pure sincera col Don Giovanni, cui cede volentieri dopo essersi fintamente bevuta qualche balla. Siamo alla donna innamorata più dell’amore, più che dell’uomo. Chi c’è piaciuto ancor meno di Don Giovanni, se possibile, è il Commendatore, Kwangchul Youn: bassino, ormai poco potente di cassa toracica, autorevole come un vecchietto ai giardinetti col bastone. Il fantasma del Commendatore ha terrorizzati di tutto l’Otto e Novecento: quello avrebbe fatto ridere, e lo diciamo col massimo rispetto.

Dei costumi di Brigitte Reiffenstuel, estremamente variati, non abbiamo tempo e voglia di scrivere. All’inizio del primo atti si è rischiato l’effetto low-cost, e non si riusciva a comprendere in nessun modo la necessità di rendere moderno ciò che non lo era: lo scenario agreste di Masetto & company sembrava un dopolavoro aziendale di provincia. Fa eccezione la straordinaria eleganza della scena del ballo, notata da tutti. Il celebre finale non aveva pathos. Era povero, casuale, da cronaca nera d’alto bordo. Doveva essere altro, dovrebbe essere altro: un eroismo – mai visto, nel caso – che non cede a pentimenti di sorta. Almeno questo. Noi wagneriani fradici continuiamo a preferire la versione originale e tedesca, quella che concludeva tutto con lo sprofondamento negli inferi, deprivata della postilla finto-consolatoria che era stata soppressa da tutti i teatri tedeschi ottocenteschi e abbondantemente novecenteschi. Il fascino di Don Giovanni – mai visto neanche questo, nel caso – dovrebbe rimanere intatto e troneggiare sui destini dei presenti, ridotti a comparse, a macchiette, attoniti con la loro giustizia terrena e i loro codicilli. Leporello dovrebbe essere un orfano liberato e perplesso, Donna Anna dovrebbe elaborare il lutto, gli altri sembrare patetici nel senso moderno del termine. Invece sembra che giustizia abbia trionfato neppure su un furfante, ma su un cretino. La trovata registica è buona: Don Giovanni riappare di soppiatto dall’ oltretomba e li guarda sprofondare a loro volta, nel niente delle loro vite. Dovrebbe stagliarsi come un libertino, un libero pensatore, l’anti-dogma che pure appartenne al Mozart del crespuscolo: «A torto di viltate, tacciato mai sarà». Un Don Giovanni che guarda l’umanità sprofondare in se stessa e che «si burla di noi». Invece era un idiota.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera