Che anno è

Marcello Sorgi ha scritto sulla Stampa – mi scuso con lui per l’oscena sintesi – che un’alternativa a Berlusconi che nascesse dal centrodestra sarebbe preferibile a una finta rivoluzione che riconsolidasse il Cavaliere. Sorgi, per finta rivoluzione, intende quella che per esempio accompagnò l’ascesa di Berlusconi nel 1994, avendo lui rappresentato, in realtà, una «garanzia del passato equilibrio anticomunista democristian-socialista riaggregatosi attorno a lui».

E’ una tesi come un’altra, e già meriterebbe delle osservazioni: tipo che l’equilibrio forse non era poi così «anticomunista» come Sorgi lo ricorda, che era basato anche su eccellenti rapporti di Berlusconi con la sinistra soprattutto veltroniana, che qualche aiuto pubblicitario di Fininvest alle feste de l’Unità certo non mancò, soprattutto che le tv e i giornali del Cavaliere furono in prima fila proprio nell’abbattere l’equilibrio democristian-socialista di cui avrebbero fatto parte. Ma non è questo a interessarci. Ci interessa la lunga premessa che Sorgi pone a tutto questo: che il Paese, cioè, oggi stia in qualche modo rivivendo lo scenario drammatico del 1993-1994, ipotesi che io giudico assolutamente falsa.

Mi spiego. Intanto lo scenario: è vero, c’è una forte crisi economica e per il resto abbiamo scontri a tutti i livelli, Berlusconi contro i giudici e viceversa, presidente della Camera contro presidente del Consiglio e viceversa, l’opposizione contro tutto e tutti, la Corte Costituzionale a sua volta messa in discussione, il Capo dello Stato che sembra aver perso il controllo della situazione. Ma tutto questo, pur in un discreto impazzimento generale, avviene all’interno delle istituzioni e di un regolamento di conti tra poteri, insomma nei palazzi. La gente di fuori, stando ai sondaggi, seguita a legittimare questa classe dirigente: e non è una differenza da poco, perché nel 1993-1994 invece fu la stessa gente a travolgere il citato «equilibrio democristian-socialista» e a consentire che Mani pulite facesse quel che ha fatto: perché è l’eterno «centro moderato», in Italia, che permette di fare le rivoluzioni.

Ma le differenze tra allora e oggi sono altre tremila. Ai tempi l’insofferenza contro i partiti e contro la crisi economica e di sistema si riscontrarono innanzitutto nel voto (5 aprile 1992, 27 marzo 1994) ma soprattutto il 5 e 29 ottobre 1992, quando la lira cioè scese al minimo storico e fu ratificato anche in Italia il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria. Qualsiasi peculiarità italiana, di lì in poi, si allineò a parametri ormai imprescindibili: anche da questo, il 10 luglio 1992, nacque la discussa manovra finanziaria da 30.000 miliardi di lire (comprensiva del 6 per mille sui depositi bancari) con cui il governo di Giuliano Amato tentò un primo risanamento del disavanzo: questo mentre la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina furono gravide di conseguenze sociali. Fu un periodo drammatico, altroché: il prodotto interno lordo calò dell’1,2 per cento e i consumi scesero del 2,5, decrescita peggiore dal dopoguerra: il valore della lira andò in discesa libera e si era a un passo dalla bancarotta finanziaria. La Lega di Bossi, oltretutto, non minacciava il federalismo ma la secessione (eventualità che allora si prendeva sul serio) mentre nella vicina ex Jugoslavia si scannavano serbi e croati e bosniaci e musulmani. La mafia, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, preparava altre bombe mentre pezzi di apparati dello Stato, orfani della guerra fredda, erano in subbuglio. In mezzo a tutto questo l’inchiesta Mani pulite distruggeva un ceto politico senza che un altro avesse il tempo di sostituirlo: no, non era un periodo troppo tranquillo, ma soprattutto mi pare che non c’entri niente col clima che c’è oggi. Quali sarebbero, dunque, «gli elementi di ricomposizione del sistema che alla fine hanno vinto», come li chiama Sorgi?

Oggi – e neanche questa è una differenza da poco – la politica bene o male ha ancora in mano il pallino. Magari non ci combina granché, con ‘sto pallino, perché il clima in effetti è pessimo: ma è un altro mondo. I partiti strutturati sono scomparsi, non c’è più un sacrale primato della politica, non ci sono più i voti di preferenza coi signorotti delle tessere, non ci sono (quasi) più i politici professionisti e i parlamentari con l’orgoglio di esserlo, è cambiata l’immunità parlamentare, il sistema elettorale, la spesa pubblica, la pubblica amministrazione, il falso in bilancio che è stato depenalizzato, ma soprattutto a una generica sfiducia nella classe politica si è nel tempo accompagnata anche una sfiducia in qualsiasi «casta», magistratura compresa. Non sto dicendo che sia meglio, ma diverso sì. Non ci sono bombe che squarciano città e monumenti, non ci sono suicidi eccellenti e la carcerazione preventiva come regola, non c’è una magistratura che con un paio di editti sia in grado di fermare e cancellare due legittimi decreti varati da due differenti governi: il Decreto Conso e il Decreto Biondi. Bene o male, c’è un primato non dico della politica – sarebbe troppo – ma di una classe parlamentare, eletta o nominata che sia. Marcello Sorgi scrive che «la magistratura non ha puntato sulla classe dirigente nel suo complesso, ma sui discussi comportamenti di un premier». Questo è verissimo, ma è accaduto dal 1994 a oggi.

Sorgi aggiunge che «la differenza più forte rispetto al passato è che Berlusconi rifiuta di dimettersi». Ma anche questo accade da allora, dal 1994. Non si dimette perché ha il consenso, come un’intera classe politica non aveva più. La magistratura, allora, era un grande gendarme con potere d’interdizione permanente su uomini e cose: un faro accecante sul vuoto della politica. Oggi ci stiamo tornando vicini, ed è esattamente il rischio che va scongiurato con ogni mezzo.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera