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  • Mercoledì 6 luglio 2016

La riforma del lavoro in Francia va avanti

Il governo vuole di nuovo forzare l'approvazione del contestato progetto di legge senza discuterlo in Parlamento

(AP Photo/Claude Paris)
(AP Photo/Claude Paris)

Martedì 5 luglio il primo ministro francese, Manuel Valls, ha annunciato che per la seconda volta farà ricorso a un particolare meccanismo parlamentare per far approvare, nuovamente senza voto né discussione, una contestata riforma del lavoro contro la quale si protesta ormai da quattro mesi. L’opposizione poteva presentare una mozione di censura entro le 15 di oggi per cercare di fermare la legge, ma non l’ha fatto: sarebbe servito poi comunque un voto parlamentare. La legge passerà poi di nuovo all’esame del Senato.

Dopo l’annuncio di Valls, ci sono state nuove manifestazioni di protesta organizzate dai sindacati che continuano a chiedere che la riforma sia ritirata e che cercano da settimane di aumentare la pressione attraverso l’organizzazione di scioperi e il blocco delle raffinerie.

La riforma del lavoro era già stata approvata dall’Assemblea Nazionale senza discussione né voto, grazie al ricorso all’articolo 49 comma 3 della Costituzione e si trova ora in seconda lettura all’Assemblea Nazionale. Manuel Valls, nell’annunciare per la seconda volta il ricorso allo strumento 49.3 – senza sorpresa, scrivono i principali giornali francesi – ha criticato «l’alleanza dei contrari, un’alleanza fatta di conservatorismo e immobilismo» prendendo di mira sia la destra che gli oppositori del suo stesso partito.

Il testo della riforma attualmente in via di approvazione è diverso da quello che aveva presentato la ministra del Lavoro Myriam El Khomri lo scorso febbraio. Di fronte alle critiche di sindacati e studenti, il governo aveva rivisto la prima versione e la commissione Affari Sociali dell’Assemblea Nazionale aveva a sua volta modificato alcune disposizioni del disegno di legge. La riforma rende innanzitutto più semplici per le aziende i licenziamenti economici, riducendo al minimo la discrezionalità dei giudici: sostanzialmente amplia le cause di licenziamento senza reintegro del lavoratore o della lavoratrice, indicando tra le ragioni economiche anche una riorganizzazione necessaria al salvataggio dell’azienda o una diminuzione degli ordinativi o del giro d’affari per vari trimestri consecutivi. Nella seconda versione del testo è stata inserita una frase che esclude dalla “giusta causa” «le difficoltà economiche create artificiosamente dalle aziende per procedere con i licenziamenti».

Un altro punto contestato riguarda la retribuzione delle ore di straordinario, che verrebbe abbassata al 10 per cento (attualmente è di circa il 25 per cento in più nelle prime otto ore di straordinario). Di fatto, dicono i sindacati, se gli straordinari saranno più convenienti per i datori di lavoro, ce ne saranno molti di più: quindi l’orario di lavoro settimanale aumenterà con ridotti benefici per i lavoratori. Si prevede poi una maggiore flessibilità sempre per le imprese ad aumentare gli orari di lavoro, una minore frequenza delle contrattazioni con i sindacati, parametri più elevati (e quindi più difficili da raggiungere, per i sindacati) per rendere valido un referendum interno o un accordo.

La riforma, per chi la contesta, presenta infine all’articolo 2 un “rovesciamento della gerarchia delle norme”. Di norma il codice del lavoro è disciplinato dalla legge: i contratti collettivi non possono essere meno favorevoli per i dipendenti di quanto non stabilisca la legge; i contratti aziendali allo stesso modo non possono avere parametri più bassi (o tutelare meno il dipendente) di quanto non prevedano i contratti collettivi; infine il singolo contratto di lavoro non può essere meno favorevole al dipendente di quanto previsto nell’accordo d’azienda. Il nuovo disegno di legge dice che per quanto riguarda la durata del lavoro (che comprende orario, straordinari, ferie, congedi ecc) il primato va al contratto aziendale. In altre parole, dal punto di vista del dipendente, il contratto aziendale può essere “meno conveniente” dell’accordo collettivo fatto dai sindacati per quello specifico settore, di fatto annullandolo.