Bisogna rivalutare l’elettroshock?

Un nuovo dispositivo permette di ottenere risultati migliori e senza le enormi sofferenze di una volta, ma è difficile superare lo stigma del passato

 (AP Photo/Atlanta Journal-Constitution archives at Georgia State University)
(AP Photo/Atlanta Journal-Constitution archives at Georgia State University)

Da alcuni anni diversi ricercatori, soprattutto negli Stati Uniti, sono al lavoro per cambiare la cattiva reputazione dell’elettroshock (terapia elettroconvulsivante, TEC), ritenuto dall’opinione pubblica invasivo e spesso devastante per i pazienti, ma considerato ancora oggi una risorsa molto importante per curare casi gravi di depressione che non rispondono ad altre terapie. Parte della percezione negativa intorno all’elettroshock deriva da film come Qualcuno volò sul nido del cuculo, il film di Miloš Forman del 1975 con Jack Nicholson in cui è mostrata la vita all’interno di un ospedale psichiatrico dove tra le terapie praticate c’è anche la TEC. In una scena il personaggio interpretato da Nicholson viene sottoposto all’elettroshock tra convulsioni e visibili sofferenze, che però non hanno nulla a che fare con il modo in cui viene effettuata la TEC ai giorni nostri.

L’opportunità di indurre attacchi nervosi per curare particolari malattie psichiatriche fu ipotizzata per la prima volta nel XVI secolo, ma i primi studi in materia risalgono a meno di un secolo fa e inizialmente prevedevano l’utilizzo di particolari composti chimici, che solo in seguito furono sostituiti con la somministrazione di scariche elettriche. La pratica dell’elettroshock divenne piuttosto diffusa negli ospedali psichiatrici statunitensi tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento: le scosse erano applicate ai pazienti senza anestesia e rilassanti per i muscoli, cosa che portava quindi a grandi sofferenze legate ai fortissimi spasmi muscolari indotti dal passaggio della corrente elettrica. Gli effetti collaterali del trattamento erano talvolta molto gravi: ossa rotte, perdita della memoria e di altre funzioni cognitive.

Fino alla comparsa dei farmaci antidepressivi, non c’era praticamente alternativa alla TEC per trattare i disturbi mentali più gravi, a partire proprio dalla depressione. L’arrivo di nuovi medicinali per le terapie ridusse progressivamente il ricorso all’elettroshock, ma in alcuni casi trattamenti di questo tipo sono ancora proposti ai pazienti nel caso in cui non rispondano alle altre terapie meno invasive. La TEC viene effettuata somministrando ai pazienti un’anestesia totale, per renderli incoscienti, combinata con farmaci per rilassare i muscoli, in modo da ridurre al minimo le convulsioni.

A seconda dell’area del cervello da trattare, il medico applica degli elettrodi sulla testa del paziente e successivamente attiva il macchinario che invia una scossa elettrica per circa un minuto, in modo da stimolare le aree interessate. Dopo alcuni minuti il paziente si risveglia, di solito un po’ intontito e talvolta con problemi di memoria a breve termine, che tendono comunque a sparire dopo poco tempo. Altri effetti collaterali possono essere mal di testa e nausea, spesso causate dai farmaci per l’anestesia e per rilassare i muscoli.

La cosa affascinante per i ricercatori, forse meno per i pazienti, è che ancora oggi non è del tutto chiaro come l’elettroshock porti nella pratica ai risultati positivi nelle persone con forte depressione. Un’ipotesi, basata sull’analisi dell’attività cerebrale di un campione di pazienti, è che la TEC effettui una sorta di reset dei danni causati al cervello dalla depressione. Semplificando: le persone depresse hanno di solito la regione del cervello responsabile per i pensieri negativi e rimuginanti molto più attiva della parte deputata all’approccio positivo ai problemi. Uno studio del 2012, realizzato presso l’Università di Aberdeen (Regno Unito), ipotizza che l’elettroshock ripristini alcune connessione cerebrali in modo da bilanciare meglio il rapporto tra le aree deputate al pensiero.

Nonostante i sistemi adottati per ridurre gli effetti collaterali, la TEC è trattata ancora con grandissima precauzione da parte delle autorità di controllo dei farmaci e dei dispositivi medici. Nel 2011, per esempio, la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha messo in revisione la TEC, in seguito alla proposta di spostarla dalla Classe 3 (quella a più alto rischio) alla Classe 2. Secondo i sostenitori della riclassificazione, il passaggio avrebbe permesso di ridurre lo stigma intorno all’elettroshock non solo presso l’opinione pubblica, ma anche tra i medici che diffidano di questo sistema per trattare i casi psichiatrici più gravi. Furono mostrati dati e statistiche raccolti nei decenni precedenti, dimostrando che la depressione causa la morte di migliaia di persone ogni anno, mentre la TEC se utilizzata opportunamente può salvare vite. Furono anche mostrati test clinici condotti negli ultimi anni, ma nonostante la mole consistente di prove portate a favore dell’elettroshock, la commissione della FDA decise di non consigliare la riclassificazione.

Come spiega Dan Hurley sull’Atlantic, le cose potrebbero cambiare nei prossimi anni grazie all’introduzione di un nuovo dispositivo che utilizza i magneti, per convogliare le scosse in modo più preciso nella testa dei pazienti. La corrente emessa dai tradizionali elettrodi viene in gran parte dispersa dallo scalpo e dalle ossa del cranio, mentre il campo elettromagnetico generato dai magneti non viene ostacolato e permette di realizzare applicazioni mirate e con meno effetti collaterali, perché si riesce a evitare la zona dell’ippocampo, la prima responsabile della memoria a breve termine. Il ricorso a un sistema di questo tipo fu ipotizzato per la prima volta nel 1994 da Harold Sackeim dell’Istituto psichiatrico dello Stato di New York (Stati Uniti) e, negli ultimi anni, è stato sviluppato soprattutto da Sarah Hollingsworth Lisanby, attualmente responsabile di una delle divisioni del National Institute of Mental Health.

Il primo prototipo del nuovo sistema fu sperimentato nell’aprile del 2000 su una paziente di 20 anni in Svizzera, affetta da una grave forma di depressione che non era stato possibile trattare efficacemente con gli psicofarmaci. La paziente fu sottoposta a quattro sedute con il nuovo metodo e a otto con il classico elettroshock, con una progressiva riduzione dei sintomi. Negli anni seguenti la TEC magnetica è stata oggetto di molte ricerche, che nella maggior parte dei casi ne hanno dimostrato l’efficacia, comparabile a quella del normale elettroshock, ma con il vantaggio di non causare rilevabili perdite di memoria nei pazienti.

Attualmente la TEC magnetica non è però una procedura approvata dalle autorità di controllo sanitarie europee e statunitensi. Il problema è che i produttori dei macchinari per praticarla sono pochi e non hanno le risorse per effettuare i test clinici su larga scala richiesti per fare approvare i dispositivi medicali. Il nuovo sistema può essere quindi utilizzato solo negli studi clinici, ma Lisanby confida di superare il problema grazie a una serie di analisi cliniche condotte negli ultimi tempi e i cui risultati saranno presto resi pubblici e condivisi con la comunità scientifica.

Le nuove ricerche prodotte negli ultimi anni stanno comunque contribuendo a riaprire il dibattito sulla TEC e sulle opportunità che può offrire per i pazienti. Il problema più discusso è legato alla durata degli effetti dell’elettroshock: in molti casi i benefici durano tra i 6 mesi e un anno, se non viene affiancata una terapia di mantenimento con farmaci o con altre sedute di TEC. Diversi ricercatori si stanno occupando di questo per capire come migliorare la resa e prolungare la durata degli effetti.