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  • Venerdì 11 luglio 2014

La crisi in Afghanistan

Entrambi i candidati alle presidenziali si sono proclamati vincitori e lo stallo rischia di peggiorare ancora le cose: giovedì Kerry ha cercato di sbrogliare la questione

This image released by the Afghan presidential palace shows U.S. Secretary of State John Kerry, left, talking with Afghanistan's President Hamid Karzai, right, at the presidential palace in Kabul, Afghanistan, Friday, July 11, 2014. Secretary of State Kerry sought Friday to broker a deal between Afghanistan's rival presidential candidates as a bitter dispute over last month's runoff election risked spiraling out of control. (AP Photo/Afghan presidential palace )
This image released by the Afghan presidential palace shows U.S. Secretary of State John Kerry, left, talking with Afghanistan's President Hamid Karzai, right, at the presidential palace in Kabul, Afghanistan, Friday, July 11, 2014. Secretary of State Kerry sought Friday to broker a deal between Afghanistan's rival presidential candidates as a bitter dispute over last month's runoff election risked spiraling out of control. (AP Photo/Afghan presidential palace )

Il segretario di Stato statunitense John Kerry è arrivato giovedì a Kabul, in Afghanistan, e ha detto che il paese si trova in un «momento critico» della sua storia. Uno particolarmente critico, considerato il difficile recente passato del paese.

Lo scorso 14 giugno si sono svolte le votazioni per il secondo turno delle presidenziali a cui Hamid Karzai – presidente uscente eletto per la prima volta nel 2004 ma di fatto in carica dalla fine del 2001, dopo la caduta del regime dei talebani – non ha partecipato. I due principali candidati erano l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, che al primo turno aveva ottenuto la percentuale più alta di voti, il 44,9 per cento, e l’ex economista della Banca Mondiale Ashraf Ghani, che era arrivato secondo con il 31,5 per cento. I risultati preliminari del voto pubblicati lo scorso 7 luglio hanno però mostrato un’inversione: Ghani è stato dichiarato in vantaggio con il 56,44 per cento. Entrambi i candidati hanno però denunciato brogli e irregolarità: Abdullah ha rivendicato la vittoria e ha anche minacciato di formare un governo parallelo. Finora sono stati ricontrollati i voti in più di 7mila seggi elettorali, quasi un terzo del totale. I risultati finali dovrebbero arrivare il 22 luglio.

Le presidenziali e i brogli
Oltre che, naturalmente, per la politica interna afghana, le presidenziali in Afghanistan sono molto importanti per alcuni temi di importanza mondiale, come la lotta al terrorismo e per le possibili conseguenze sui soldati statunitensi ancora nel pese, che dovrebbero completare il ritiro entro la fine dell’anno. Il voto del 5 aprile (primo turno) e quello del 14 giugno (secondo turno) avrebbero dovuto infatti sancire in modo pacifico – almeno secondo le aspettative – la prima transizione verso la democrazia nella storia del paese. Ma questo scenario è stato inquinato dalle numerose e reciproche accuse di brogli.

Le irregolarità erano state previste prima del voto. Il Guardian, tra gli altri, aveva scritto per esempio che molte schede elettorali erano state richieste e rilasciate senza particolari controlli e che altre avrebbero potuto essere contraffatte e poi vendute. Si sapeva che il sistema di controllo era molto debole e che la stessa scheda avrebbe potuto essere facilmente presentata in diversi seggi del paese, e usata per esercitare più volte il diritto di voto. Nell’ottobre del 2012 in una relazione dell’International Crisis Group (ICG) c’era scritto: «È quasi certo che nelle condizioni attuali, le elezioni del 2014 saranno viziate da brogli massicci. Le irregolarità del voto a sud e ad est, dove la sicurezza continua a peggiorare, sono praticamente assicurate».

Il ruolo di Hamid Karzai
I sostenitori di Abdullah ritengono che la massiccia frode elettorale sia stata orchestrata in qualche modo dall’amministrazione del presidente uscente. Karzai, presidente dell’Afghanistan da quando i talebani sono stati cacciati dal potere alla fine del 2001, è diventato negli anni uno degli uomini più potenti del paese e si è assicurato il sostegno del governo statunitense. Pur non essendo possibile stabilire alcuna connessione diretta tra i brogli e il presidente uscente, molti non dubitano del fatto che Karzai avrebbe continuato e continuerà a condizionare la politica afghana. Ha influenzato il comitato elettorale nell’approvazione dei candidati alla presidenza (e ha dissuaso alcuni di loro a non presentare o ritirare la candidatura), ha scelto personalmente i funzionari che stanno decidendo sulle dispute elettorali e ha finanziato con decine di migliaia di dollari due dei tre più importanti candidati, assicurandosi in pratica che almeno uno dei due passasse al secondo turno e se la giocasse al ballottaggio (si tratta di Ashraf Ghani, considerato il più vicino agli Stati Uniti).

C’è anche chi ha denunciato che Karzai avesse interesse a creare questo stallo politico e a non vedere affermarsi in modo netto con il voto alcun candidato. Diversi osservatori a Kabul hanno rilevato come il presidente uscente avesse contribuito a frammentare la scena politica appoggiando diverse candidature, per consentire dunque di porsi come arbitro finale della disputa.

Violenze e scontri
Il rischio maggiore è che la tensione e la violenza crescano e si diffondano al punto da portare a una nuova guerra civile. Ghani, come Karzai, è un pashtun e ha ottenuto i voti dei pashtun, il più grande gruppo etnico dell’Afghanistan, che negli ultimi cento anni ha espresso praticamente tutti i leader del paese. Abdullah, invece, ha basato il suo sostegno principalmente sul voto dei non-pashtun, che sono concentrati principalmente nel nord del paese.

I talebani – che nelle scorse settimane avevano minacciato di boicottare e “disturbare” le elezioni – potrebbero inoltre decidere di approfittare della crisi per compiere nuovi attacchi e attentati. L’intervento degli Stati Uniti in questo stallo è chiaramente legato a questi pericoli e al rischio che si riproponga la situazione del vicino Iraq, dove la frammentazione del paese che ha fatto seguito alla partenza delle truppe americane nel 2011 ha aperto la strada alla nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Un diplomatico di Kabul ha riassunto così la visita di Kerry: «Il signor Kerry ha chiaramente fatto capire ai protagonisti della crisi afghana che gli Stati Uniti non hanno bisogno di un nuovo Iraq».