Ripartiamo dalla legge Gelmini

Per Michele Salvati è la strada "meno peggio" per migliorare l'università

Secondo Michele Salvati la riforma Gelmini è la strada “meno peggio” per migliorare l’università.

Come sarebbe facile la vita se si potesse sempre seguire il precetto evangelico: la tua parola sia «sì/no». Se di un comportamento si potesse sempre dire: giusto/sbagliato. Se di una legge si potesse sempre affermare: da approvare/da respingere. Le cose, purtroppo, sono quasi sempre più complicate di così. Prendiamo una legge. Prendiamo la legge Gelmini.

Una legge, specie se ha l’ambizione di riordinare e innovare un settore istituzionale complesso come l’istruzione universitaria, può facilmente diventare un mostro normativo: il disegno di legge si compone di 25 articoli, quasi tutti a loro volta composti da molti commi e ogni comma è una norma, un comando. Molti di questi articoli contengono poi deleghe al governo, deleghe a emanare altre norme. E contengono rinvii agli statuti delle singole università, ancora norme.

Migliaia di norme: chi ha fatto i calcoli ne ha contate 500 nel ddl, che poi richiederanno 35 decreti del governo e circa mille regolamenti degli atenei. E ogni norma esige interpretazioni e può provocare dissensi e conflitti. Poteva il mostro essere di dimensioni più ridotte? Si, poteva. Ma richiedeva una scelta rischiosa: poche linee d’indirizzo e una griglia di criteri di performance, di rendimento, di cui il ministero sarebbe stato il guardiano, e poi libera scelta dei singoli atenei: gli atenei, e i dipartimenti all`intemo di essi, che non avessero seguito quelle linee e non avessero soddisfatto quei criteri (finanziari, scientifici, didattici) sarebbero stati penalizzati.

Avrebbero ottenuto minori risorse, sarebbero stati commissariati o eliminati. Naturalmente il ministero doveva dotarsi di un apparato valutativo molto ampio, competente e serio: in sostanza sarebbe dovuto diventare una macchina di valutazione, grande, affidabile e inflessibile. E insisto su inflessibile. Che cosa vuol dire l’autonomia degli atenei e dei dipartimenti, di cui tutti si riempiono la bocca? Vuol dire che sei libero di decidere e di sbagliare, ma se sbagli, paghi. In un contesto privato, è il mercato che distribuisce premi e sanzioni. Se si ritiene che l’istruzione universitaria debba restare pubblica nel suo assetto portante – e sono tra coloro che così ritengono – l’unico modo di conciliare una vera autonomia e l’effettivo svolgimento della missione didattica e scientifica affidata alle università è quello che ho appena descritto.

(continua a leggere sulla rassegna stampa del sito del governo)