Sono stata un’opera d’arte

Marina Abramovic è arrivata ieri, 19 marzo, al PAC di Milano con la performance The Abramovic Method. “Vivere l’esperienza del qui e ora”, spiega l’artista serba e io mi accingo a provare.

Quando mi hanno detto che sarei stata nel gruppo dei 21 che inauguravano questa performance l’ho presa come una cosa divertente. Ma oggi, mentre cerco di scegliere la camicia più adatta e i colori che più si addicono a un simile evento, ho la tachicardia e quel groppo in gola che contraddistingue gli attacchi di panico. Mentre attraverso a piedi i Giardini (a Milano il parco di fronte al PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea, si chiama semplicemente così, i Giardini) penso che vorrei cedere il mio posto di opera d’arte ad altri più portati di me per esserlo.

Perché voglio fare la performance? Forse perché l’esperienza di questa artista è legata alla fotografia. Abramovic la usa e la ama anche se non è la fotografia come linguaggio ma come pura documentazione. L’opera d’arte è la performance, per semplificare, la connessione tra gli individui e le loro reazioni, il rapporto tra il corpo e la mente. Del resto tutta la sua ricerca creativa è questo.

Il PAC è un posto bellissimo. Mette a proprio agio. Mentre mantengo il mio ritmo tachicardico ascolto l’artista che ci spiega il senso della performance. Saremo noi a farla. Con il nostro corpo e la nostra mente. Lei non farà nulla se non prendersi due ore del nostro tempo. Ci costringerà a fermarlo (il tempo), ad ascoltare il nostro respiro, a spegnere il cellulare, a non mandare mail, a non fare programmi. La vera performance sarà non fare niente. Neppure aspettare. Cita John Cage quando, qualche decennio fa, dichiarava che bisogna superare la soglia della noia, del niente assoluto. E noi ci proviamo.

Ci danno camici bianchi e siamo costretti a lasciare i nostri oggetti personali, anelli e orologi. Ci spiegano che non dobbiamo indossare metalli e nulla che segni il tempo. Metto il cellulare in modalità aereo: in fondo, penso, è il tempo di un volo verso una città europea. Mentre infilo il camice Marina, in persona, mi consiglia di togliere sciarpa e maglione. Che mi davano un certo conforto.

Ci sediamo su sdraio in posizione prendisole sulla terrazza e ascoltiamo diligenti le istruzioni. Alle nostre spalle, una muraglia umana di fotografi, operatori video, curiosi e giornalisti. Devo dimenticare il mondo. Lasciarlo fuori. Questo è quello che deve succedere e che consente alla performance di riuscire. Così ha spiegato Marina. Qui e ora.

Ora dobbiamo tutti prendere posizione: chi seduto, chi in piedi e chi sdraiato. Posizioni che assumiamo tutti i giorni, ovunque andiamo eppure adesso ci sembra difficilissimo. Saranno queste cuffie che isolano dai rumori, sarà questa strana sedia alta, con il poggiapiedi e una pietra nera sulla mia testa che dicono provenga dal Brasile.

Comincio a respirare spingendo il mondo fuori da me. Mica facile. Deconcentrarsi, non è esattamente l’opposto di quello che facciamo ogni giorno? Come perdere la misura del tempo, in veglia. Devo fare un altro passaggio: dimenticare quelle decine di fotografi e operatori che mi osservano e mi riprendono mentre ascolto il mio respiro ad occhi chiusi. Bisogna lasciarsi trasportare. Accettare che il tempo passi. Come ci ha spiegato Marina, dimenticando passato e futuro perché il tempo non esiste, dice. Accettare il silenzio e non controllarlo (sempre lui, il tempo). Lasciare che i nostri corpi, seduti, poi in piedi e infine sdraiati, siano il medium e così saremo l’opera.

Ecco dunque il Marina Abramovic Method: sperimentazione del limite, quello fisico e quello mentale. Ci ha trasferito il compito: stavolta non è su se stessa che elabora il limite ma ci invita a farlo, senza essere più spettatori. Lei ci ha guidato. Vestita con il nostro stesso camice, quasi confusa tra di noi, ci ha indicato come e perché. Un invito a liberarci delle nostre “gabbie”, soprattutto quelle tecnologiche.

Poi esce di scena. Marina non c’è più, dicono sia andata via a causa di un’influenza.

Dura più di due ore. Quando veniamo richiamati alla realtà dobbiamo scrivere le nostre impressioni. Sembriamo usciti da un esperimento radioattivo con i nostri camici bianchi e il blocco degli appunti. La sua presenza autorevole e calda manca alla conclusione.
All’inizio avevamo dovuto firmare un contratto in cui davamo due ore del nostro tempo a Marina Abramovic, all’uscita ritiriamo un attestato, firmato di suo pugno, in cui l’artista ci ringrazia.

Alla fine ci ritroviamo nei giardini del PAC. Ognuno racconta la sua esperienza e sembriamo bambini dopo il primo giorno di scuola. C’è chi ha avuto paura, chi ha rivissuto l’esperienza dell’ospedale, molti hanno ritrovato echi dell’infanzia. Ci confidiamo che abbiamo avuto momenti di cedimento, di solitudine e siamo contenti di comunicarcelo. Siamo le prime 21 opere della nuova performance dell’artista serba in questo evento milanese.

Da oggi, fino al 10 giugno, l’esperimento si ripeterà molte volte e chi vorrà potrà fermare il tempo, ascoltare il proprio respiro, dimenticare il suono delle mail e quello degli sms e in quel silenzio in piedi, seduti o distesi, dovrà regalare a Marina Abramovic, e soprattutto a se stesso, due ore inevitabilmente preziose, come un’opera d’arte.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.