Il triangolo della morte, parte 1

di Claudio Caprara
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Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa fu attraversata da un’ondata di violenze e omicidi illegali. L’intensità e le modalità variarono da paese a paese, ma ovunque lasciarono un segno profondo.
In Italia si contarono circa 8.000 vittime, anche se una stima precisa è difficile da fare. Nelle prime settimane dopo la Liberazione regnava l’incertezza: il PCI non aveva ancora una linea chiara su come affrontare le tante esecuzioni sommarie che si moltiplicavano. Ma non furono solo i comunisti a farsi giustizia da soli: anche i socialisti e i partigiani di Giustizia e Libertà furono coinvolti in queste dinamiche.
L’amnistia voluta dal ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, coprì molti reati politici commessi fino al 31 luglio 1945, e segnò un tentativo di pacificazione nazionale e di mettere fine alle vendette e agli episodi di violenza illegale. Tuttavia, il clima restò teso a lungo. Dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, iniziò una repressione sistematica contro chi aveva fatto parte della Resistenza: presero il via i grandi processi contro i partigiani e si aprì una lunga stagione di epurazioni nelle fabbriche e arresti dei militanti comunisti con un tentativo di mettere fuori legge il PCI.
Quando si parla degli omicidi avvenuti in Italia dopo il 25 aprile 1945, si usa spesso – per convenzione – l’espressione “Triangolo della morte” o “Triangolo rosso” per indicare quanto accadde nelle province di Reggio Emilia, Modena e Bologna. Non perché tutto si sia limitato a quelle zone, ma perché è lì che si concentrarono i casi più controversi e meglio documentati.

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