Caccia al ladro

Il dramma avviene lungo il muraglione di via Francesco Crispi, a Roma, alla sinistra di un portone monumentale, all’interno del quale, allora, aveva sede il Florida, la sala da ballo delle ragazze “leggere” (dove a dar luce alla tromba c’era il fiato di un giovane Ennio Morricone).
Lui si trova sopra una scala, intento ad affiggere il manifesto di Gilda, il film di Charles Vidor del 1946, perdendosi quasi negli occhi di Rita Hayworth. Lo sovrappone alle locandine “gridate” di due nomi del varietà, Carlo Dapporto e il Mago Bustelli, a sinistra del cartellone de L’ultimo orizzonte di William Wellman. Corre l’anno 1948, è già cominciata la massiccia invasione di pellicole statunitensi (in Italia ne arriveranno seicentosessantotto), è entrata in vigore la Costituzione, Togliatti ha subìto un attentato e il giorno dopo Bartali ha vinto il Tour de France. Su una bici che, dicono, sembra abbia salvato il Paese da un’insurrezione popolare.
L’uomo sulla scala si chiama Antonio Ricci, è al suo primo giorno come attacchino. La sua bicicletta, strumento indispensabile di lavoro, è adagiata sul muro. Improvvisamente due mani furtive si avventano sul prezioso biciclo. Antonio se ne accorge e il volto pallido di Lamberto Maggiorani, l’uomo che gli presta l’aspetto, si deforma in un urlo, facendo uscire una frase semplice e disperata. Un’espressione che forse appartiene ad altri tempi, come tutta la storia del film: «Al ladro!» (che è un po’ come dire «Segua quella macchina!», «Lei non sa chi sono io!», «Non sono pazzo!» e tutte quelle esclamazioni consegnate all’eternità che adesso non si usano più).

È un grido disperato che si fa evento e che ci obbligherà a seguire con totale apprensione tutti gli angosciosi avvenimenti che da quel momento in poi si succederanno. L’evento dinamico per eccellenza.
L’uomo insegue la sua bicicletta per tutta Roma, non la trova e [SPOILER] sarà costretto a rubarne una. Fine. La vicenda è tutta qui. Sembra una storiella minima invece è uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.

Quel che non si fa più
A Ladri di biciclette sono attaccato per predestinazione. È uno dei primi film che ricordi di avere visto (la Rai un tempo trasmetteva pellicole del genere in prima serata). Su questo film ho scritto il primo articolo in assoluto, per un piccolo giornale in lingua inglese, in un’era preistorica a cavallo tra le macchine da scrivere e i primi portatili (mi indicarono le battute, io per non sbagliare lo scrissi prima su un foglio a quadretti, incastrando le lettere nei riquadri). Poi fu la volta del cinquantenario. Trovai la disponibilità di chi lo aveva scritto, Suso Cecchi D’amico, riuscii a parlare con Enzo Staiola, il bambino nel film (che però non aveva grande voglia di ricordare quei giorni), e tramite Manuel De Sica, il figlio del regista (che in quel periodo stava curando un restauro del film), misi le mani su materiali per lo più inediti o quantomeno dimenticati. Mandai il risultato (via fax!) a un settimanale e riuscii nel tempo a ottenere un posto da cronista. Dieci anni dopo ancora ne scrissi per i sessant’anni. Ed ora, eccomi di nuovo, per il settimo decennale (in occasione del quale il 16 maggio 2018 in Salle Buñuel è stato presentato al Festival di Cannes, nella sezione Cannes Classics), al cospetto di un film per nulla invecchiato (nonostante sia) su un mondo del quale non è rimasto più nulla.
E non è solo perché sono spariti i bordelli (chiusi dalla legge Merlin); la celere (il reparto speciale della Polizia, allora appena costituito, con funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico); la cellula (nell’organizzazione del partito comunista il raggruppamento minimo nel quale si raccoglievano gli iscritti); la messa del povero (l’istituzione di carità che vedeva radunare ogni domenica mendicanti e barboni); quel genere di santona (la veggente che predice il futuro) o quel tipo di stadio (il Nazionale, l’odierno Flaminio di Roma). Speriamo non sia in via di estinzione anche la mozzarella in carrozza (ricetta da depositare all’Unesco: due fette di pan carré passate nella farina, bagnate nell’uovo, farcite di mozzarella e successivamente fritte nell’olio).

La dignità su due ruote
Forse dobbiamo chiederci come faccia un film così ad essere, ancora oggi, una storia universale, la vicenda di un uomo solo che diventa di tutti. Può darsi perché è anche la storia di una privazione: a un uomo tolgono una bicicletta, ma quel mezzo non è solo di trasporto, è indispensabile. E quel furto assume la valenza di una catastrofe. Con cosa sostituireste oggi la necessarietà di quella bici? Probabilmente, azzardo saltando due passaggi e due ere, con uno smartphone. La sua eliminazione ci rende perduti, è vero, ma solo perché i nostri cellulari contengono le nostre vite e non perché da essi queste dipendono. Da quella bicicletta, invece, dipende il lavoro di un uomo e la sopravvivenza della sua famiglia. Spogliarlo di quel mezzo significa privarlo della necessità più estrema. Strappargli la possibilità, appena agguantata, di una vita decorosa. Quel furto, in pratica, lo priva della dignità. E se nella iperstratificata complessità del nostro presente non è più sufficiente un furto per privarci di un valore simile, la perdita della dignità naturalmente esiste ancora – tocca sempre il lavoro, ma anche la casa, i figli, persino la morte – e può sempre metterci in ginocchio. Forse per questo quel film è ancora vivo. Per questo ancora oggi è facile reputarlo un capolavoro assoluto, al di là della sua autentica, integra e ineccepibile sintassi poetica.
Certo, naturalmente il mondo è cambiato. E nemmeno la nostra nuova diffusa povertà, che potrebbe recuperare gli ideali solidali di allora, combinata con elementi “sharing”, inneggianti a una economia della condivisione, a un rilancio della vita su due ruote o, in negativo, allo sfruttamento dei ciclofattorini, possono ridurre le distanze. Quel mondo – purtroppo o per fortuna – è un altro. E ormai è storia. Una storia che iniziò il giorno in cui lo scrittore Cesare Zavattini si avvicinò al regista Vittorio De Sica con un volume in mano.

L’idea
«È uscito un libro di Luigi Bartolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e lo spunto». Nessuno dei due poteva immaginare che quell’invito sarebbe diventato il primo motore immobile del film italiano più famoso nel mondo. L’unica cosa certa era solo che quel libro fermo tra le dita di Zavattini si intitolava Ladri di biciclette.
Il regista, reduce dai successi di Sciuscià, aveva studiato fino ad allora quaranta copioni, ma, dal momento in cui ebbe quel volume in mano, decise di accantonare ogni altro progetto e con la Produzioni De Sica acquistò i diritti di riduzione del testo. Subito dopo Zavattini, dal libro (uscito nel 1946 dall’editore Polin, poi ristampato da Longanesi nel 1948) ricavò il soggetto (ne esistono diverse versioni, esaminando gli estremi la prima stesura fu pubblicata nella “Rivista del cinema italiano” sul numero di maggio del 1954, l’ultima nel “Diario cinematografico” di Zavattini edito da Bompiani nel 1979) e, insieme allo sceneggiatore Sergio Amidei e allo stesso De Sica, iniziò un “andare a vedere” gli ambienti per rubare dalla realtà.
I tre autori desideravano ispirarsi alla vita, imitandone modi e forme. Non avevano intenzione di inventare una storia che somigliasse alla realtà, ma raccontare la realtà come fosse una storia. Si imbatterono così nel postribolo di via di Panico (settembre 1947), nella messa dei poveri dentro la chiesa dei santi Nereo e Achilleo (7 dicembre 1947) e più avanti (12 e 13 febbraio 1948) nella stanza della santona ad ascoltare le pene dei suoi assistiti. Episodi di vita che sarebbero diventati parte della storia. La stanza della veggente si trovava in una stradina di fronte a Villa Torlonia (dove, sessant’anni dopo, nacque l’idea del Post). La santona era seduta in poltrona. I tre, a turno, quel giorno accompagnati dallo sceneggiatore Gerardo Guerrieri, le porsero delle domande un po’ a caso («Sono un operaio – disse Guerrieri – mi hanno rubato la bicicletta» e la santona «Non ti affannare, tanto non la trovi»). Quando la donna si rivolse a Zavattini, che era in disparte, gli altri tre scoppiarono a ridere scappando via. Il giorno dopo De Sica si recò di nuovo dalla santona: «Buon giorno, sono venuto a domandare scusa perché ieri sera io e i miei amici ci siamo messi a ridere per dei fatti nostri, può darsi che nessuno se ne sia accorto, ma io ho il dovere di domandare scusa di fronte a queste persone che vengono da lei». Mise dei soldi sul comodino e se ne andò.
Zavattini fu l’anima del film, lui stesso individuò nella “poetica del pedinamento” l’unica possibilità di cogliere la consistenza quotidiana. La pazienza dello sguardo avrebbe permesso alla cinepresa di indugiare nel tempo, sorvegliare la realtà, seguirne le vicende senza farsi vedere, cogliendo così la vita dell’uomo nella sua reale durata. Luoghi e ambienti iniziarono a costituire la materia drammatica e la Roma travagliata di quel 1948 passò da sfondo a protagonista.
Quelle passeggiate si fecero vagabondaggi e infine, nel momento della ricerca dei possibili finanziamenti, peregrinazioni. Per De Sica fu l’inizio di una odissea: si recò da tutti i possibili produttori raccontando la storia del film, sceneggiandola, interpretandone tutte le parti, spettacolo che – a detta di chi aveva avuto la fortuna di assistervi – valeva la pena di essere visto. L’entusiasmo del regista però non riusciva a contagiare i produttori italiani. Da un lato collegavano De Sica ancora alle commedie dei telefoni bianchi, dall’altro, nonostante l’Oscar appena vinto per Sciuscià, non vedevano di buon occhio un film sulla miseria. Anzi, erano convinti che un film sulla miseria non avrebbe prodotto altro che miseria. «Il denaro – constatò sconsolato De Sica – spegne l’immaginazione».

Un film che gronda di affetti
Intanto, si cominciò a lavorare alla sceneggiatura. I convocati per la scrittura del film furono molti: oltre a De Sica e Zavattini vennero coinvolti Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri e Sergio Amidei.
Quest’ultimo, che alle sue spalle aveva pellicole come Roma città aperta, Sciuscià e Paisà, si rivelò l’elemento più rigoroso del gruppo. In una delle prime sedute di sceneggiatura Amidei e Zavattini si trovavano seduti a un tavolo, l’uno di fronte all’altro, De Sica dava loro le spalle contemplando il cielo dalla finestra. Nella stessa stanza era seduto in un angolo l’allora sedicenne Sergio Leone (che nel film fece gratuitamente l’assistente e una comparsata) pronto a scattare alla prima richiesta di sigarette. «Secondo me – disse Zavattini – il protagonista deve uscire con uno sfilatino imbottito di mortadella incartato in un giornale su cui si legga in evidenza la parola Unità». Nella stanza regnava un silenzio assoluto. Dopo un attimo, Amidei esplose: «Ma che c’entra l’Unità! Caso mai “” solamente!». Seguì una lunga pausa di mutismo generale e poi si udì la voce di De Sica che diceva: «Miei buoni amici, secondo me ci vorrebbe una mela, una mela rossa, di quelle variopinte, metà rosse e metà sfumate, e lui che esca addentando questa mela!». Alla fine l’intransigenza di Amidei dilagò e lui stesso, dopo un mese, decise di abbandonare l’impresa perché poco convinto: non trovava giusto che «un compagno, un comunista, un operaio» che viveva in una borgata non fosse tutelato dalla sezione del partito che l’avrebbe potuto aiutare fornendogli una bicicletta.
Al suo posto venne chiamata una sceneggiatrice trentaquattrenne, Suso Cecchi D’Amico, che, in occasione dei cinquant’anni di Ladri di biciclette, nel lontano 1998, andai a trovare, prima nel quartiere romano dei Parioli e poi in un albergo del centro, per farmi raccontare da lei la storia del film: «Eravamo in tanti – disse – perché non ci facevamo caso. All’inizio cominciò con Zavattini, De Sica e Amidei, poi Amidei se ne andò e allora chiamarono me. E il film l’abbiamo fatto noi tre. Gli altri nomi, a parte quello di Guerrieri, erano tutti amici di De Sica messi lì solo per fargli prendere qualche soldo». Accreditato c’era anche Gherardo Gherardi, lo “sceneggiatore fantasma”: «Compare nei titoli di testa come sceneggiatore insieme al mio e a quello degli altri. Solo che io non l’ho mai visto. Era un amico di De Sica e lui gli aveva proposto di partecipare alla sceneggiatura, ma poi quando iniziammo a scrivere si ammalò e più tardi morì. De Sica, però, lo volle inserire ugualmente nei credits». Fu davvero un bel gesto. «Ce ne furono molti altri. Ladri di biciclette è un film che gronda di affetti».
Le intenzioni erano chiare fin dall’inizio. «Noi volevamo fare un film sulla Roma di quei momenti tanto difficili, per cui ci mettemmo in giro a viverla un po’. Zavattini a quei tempi teneva un diario in cui scriveva tutto quello che facevamo». Ladri di biciclette è il frutto di un lavoro scrupoloso, meditato, elaborato, eppure riesce magnificamente a nascondere la sua struttura. «È meraviglioso che riesca a farlo – concordò allora Cecchi D’Amico – ma il film, in realtà, ebbe una preparazione minuziosa, era tutto scritto. Nacque a tavolino, ma, dal momento che si andava molto in giro, anche dalla strada. E a questo proposito bisogna riconoscere che tutto ciò che venne poi girato in esterni finì per subire delle flessioni fatali». In alcune circostanze anche per il fatto che la troupe si trovasse a lavorare con attori non professionisti. «Certamente – concordò – Quando giri per le strade con personaggi presi lì per lì fai delle scoperte, ti accorgi improvvisamente di vedere cose che non avevi immaginato». Di conseguenza la sceneggiatura doveva essere modificata di volta in volta. «Per questo in Ladri di biciclette, come in altri film di quel periodo, io stessa e gli altri sceneggiatori stavamo molto sul set per affrontare dei cambiamenti immediati: una strada che avevi scelto ma in cui non potevi girare perché c’erano i lavori, un attore che era più vero di quello che pensavi…».

La querelle
Il contenuto della minuziosa sceneggiatura arrivò alle orecchie dello scrittore Bartolini che avviò una polemica lunga e spinosa con gli autori. Nonostante il contratto da lui firmato autorizzasse gli sceneggiatori a stravolgimenti di ogni tipo, lui non digerì che film e libro, escludendo titolo e spunto, fossero ormai due realtà diverse. La querelle finì sui giornali e a colpi di tenzone, pacifici da parte degli autori, aspri da parte del romanziere, fece emergere non tanto la rivendicazione di una paternità (inesistente nei confronti del film), quanto l’orgoglio ferito di un romanziere offeso perché del suo testo non era rimasto nulla.
Il romanzo narrava infatti la storia di un pittore – al quale rubano la bicicletta con la quale era solito fare passeggiate in cerca di ispirazione – che riesce a dare scacco matto ai ladri recuperando il suo mezzo. Per l’attacchino Antonio Ricci, invece, la bicicletta è uno strumento indispensabile per il suo lavoro e per la sopravvivenza della sua famiglia. Il suo ritrovamento non è una questione di principio, come in Bartolini, ma di sopravvivenza. E, diversamente dal testo originale, il non trovarla lo conduce alla disperazione. La ricerca di Bartolini, che asseconda l’ingegno del derubato, diventa quasi una indagine poliziesca. Quella zavattiniana, disperata e casuale, ricalca invece dinamiche più spontanee e reali.

Cary Grant? No grazie!
Terminata la sceneggiatura, De Sica si rivolse all’estero per cercare finanziamenti. Incontrò a Hollywood il produttore David O. Selznick (negli ultimi anni aveva prodotto È nata una stella, 1937, Via col vento, 1939, i primi quattro film americani di Alfred Hitchcock, 1940-1947 e Duello al sole, 1946) il quale si dichiarò favorevole al progetto, ponendo però come condizione che il protagonista fosse Cary Grant. De Sica ringraziò e rifiutò garbatamente. A Londra Gabriel Pascal, il produttore di Cesare e Cleopatra, gli offrì dieci milioni di lire, somma insufficiente per realizzare il film. A Parigi si recò nel castello dove abitava il nobile polacco Ludovico Toeplitz de Gran Ry, figlio del famoso Jósef Leopold Toeplitz della Banca Commerciale. Fu trattato con la massima gentilezza, di soldi però non se ne parlò.
Tornato in Italia continuò il suo pellegrinaggio e in un albergo di Milano si incontrò, insieme a Maria Mercader, con il conte Cesare Cicogna. Con lui avviò la solita stentata conversazione, piena di sorrisi, con cui cercano di conoscersi le persone che non si conoscono. Dopo un po’ De Sica andò a telefonare a Roma e la Mercader si ritrovò a raccontare la trama del film. Il conte era un così buon ascoltatore che lei gli rivelò anche delle loro questue con i produttori di mezzo mondo. Sopraggiunse il regista, parlò come al suo solito, divertendo e commuovendo. E così accadde che un uomo che fino a un’ora prima non conoscevano si impegnò a fondo dove i produttori professionisti si erano tirati indietro: il conte Cicogna avrebbe finanziato il film al cinquanta per cento. Ormai era quasi fatta. Un grande amico di De Sica, l’avvocato Ercole Graziadei (legale di Ingrid Bergman, Maria Callas, Roberto Rossellini, Anna Magnani, Charlie Chaplin, e Luigi Pirandello) gli offrì il denaro che mancava mentre Sergio Bernardi, altro amico, gli promise di occuparsi della contabilità e dell’amministrazione: «Soci straordinari – disse Vittorio De Sica – mi lasciano fare quello che voglio». Fu veramente così. Cicogna, Graziadei e Bernardi furono uomini non solo coraggiosi, ma anche intelligenti: riuscirono a capire l’importanza di un film come Ladri di biciclette e, insieme, il talento di un uomo come De Sica.

Sei tu che mi interessi, non il bambino
Terminata la sceneggiatura e trovati i finanziamenti restava il problema degli attori. De Sica li voleva assolutamente non professionisti. Era per questo che aveva avuto il coraggio di rifiutare la faccia pulita di Cary Grant. «Bisogna ricordare – disse Suso Cecchi D’Amico – che in quegli anni vi fu una vera e propria calata di attori che volevano recitare qui. Molti di loro passavano per lo studio dell’avvocato Graziadei, uno dei produttori del film. De Sica, però, non volle Cary Grant, figuriamoci, sarebbe stato ridicolo con quelle sue fossette…».
Questo episodio mi fece venire in mente una frase di Zavattini che diceva pressappoco così: «L’uomo è lì davanti a noi e non possiamo guardarlo al rallentatore». Sembrava proprio riferirsi a Ladri di biciclette, in polemica con i film americani. «È così – confermò la sceneggiatrice – Lui era esagerato. Zavattini all’epoca era molto importante. Aveva diretto un giornale famoso, aveva creato i rotocalchi, i fotoromanzi. Aveva molto peso e si sapeva muovere. Era un’autorità al di fuori del cinema. Il suo nome aveva più peso di quello del regista. La gente andava a vedere Ladri di biciclette non tanto perché il testo era suo, ma per il fatto che sapeva che il film era partito perché se ne era occupato lui». Però, mi permisi di ricordare, lei stessa aveva detto una volta che fu proprio con Ladri di biciclette che la sovranità del regista nell’opera cinematografica venne definitivamente consacrata al mondo. «È vero. Alla fine degli anni Venti, la gente dei film conosceva solo i nomi di Clark Gable e Claudette Colbert. Nessuno prestava attenzione al nome del regista. Poi le cose lentamente cambiarono e nel dopoguerra con i successi a New York di Sciuscià e Roma città aperta cominciarono a circolare i nomi di Rossellini e De Sica. Ma bisogna prendere atto che la vera consacrazione avvenne proprio con Ladri di biciclette. Fu quello, per primo, a diventare il film di De Sica».
Per cercare gli interpreti principali De Sica decise di ricorrere ad un insolito espediente (che poi diventerà abituale nel decennio successivo): lanciare un appello alla radio.

“De Sica cerca un operaio e un bambino per Ladri di biciclette”

Arrivarono a centinaia, soprattutto bambini accompagnati da genitori speranzosi. «O erano bellini, romantici, lisciati – raccontò un giorno De Sica – o erano incapaci». A un tratto nella fila dei genitori vide un uomo che teneva il figlioletto per mano. Gli fece segno di avanzare, lui venne innanzi esitante, sospingendo il bambino come in un piatto, sorridendo pieno di malinconica speranza. «No – gli disse De Sica – sei tu che mi interessi, non il bambino». Era Lamberto Maggiorani, un operaio della Breda che abitava in via Prati della Farnesina. De Sica gli fece subito un provino e rimase affascinato da come si muoveva, come si sedeva, come gesticolava. Gli piacquero soprattutto le sue mani callose. Mani da operaio e non da attore. Lui sarebbe stato Antonio Ricci. «Non era il primo attore preso dalla strada che lavorava con lui – mi raccontò Suso Cecchi D’Amico – e De Sica sapeva come andavano a finire le cose una volta terminate le riprese, perciò fece firmare a Maggiorani un foglio in cui si impegnava a non fare più altri film. Non era per gelosia, anzi, faceva così per non illuderlo». Perché Maggiorani era solo Antonio Ricci. «Solo quel personaggio lì. E basta» (anche se in realtà avrebbe partecipato ad altri venti film).
Durante i casting un giorno si presentò Lianella Carell, una poetessa alle prime armi che era stata incaricata di intervistare De Sica. Si trovò in uno stanzone pieno di ragazze. Quando trovò il direttore di produzione lo afferrò per il braccio: «Devo parlare con De Sica, ho un appuntamento». Lui alzò gli occhi al cielo: «Per carità signora, non se ne parla, non è ancora riuscito a trovare la protagonista del suo film». Quando apparve De Sica lei gli andò incontro: «Senta, io sono qua». Lui la guardò e disse: «Ma questa è Maria!». Poi rivolgendosi agli altri: «Ma non vi siete accorti che Maria è lei?». Lei rispose lusingata che era una giornalista e non un’attrice. Allora De Sica le prese la mano: «Il cinema ha bisogno di lei, del suo volto. Io ho bisogno di lei». E a quel punto la Carell, conquistata, disse solo «Sì».
Rimaneva il bambino. Ne arrivarono moltissimi, ma De Sica non riusciva a trovare quello giusto. Tra di loro si presentarono anche Enzo Cerusico e Carlo Delle Piane, ma furono scartati. Disperato, De Sica decise di cominciare ugualmente il film. Iniziò con la scena in cui Antonio va in cerca dell’amico che lo possa aiutare a ritrovare la bicicletta. Si girava nel teatrino del dopolavoro, De Sica, stava spiegando la parte a Maggiorani, quando si voltò infastidito dai curiosi che gli si affollavano intorno. Fu allora che incrociò con lo sguardo uno strano bambino con una faccia tonda, due gambe sottili, un naso buffo e due occhi vivacissimi. «Questo – pensò De Sica – me l’ha mandato San Gennaro». Era Enzo Staiola, abitava in quel palazzo, in via Capo d’Africa, sarebbe diventato Bruno Ricci.
Con il cast finalmente al completo l’avventura poteva cominciare.

La storia, a tappe
Le riprese si svolsero dal mese di giugno fino alla fine dell’estate del 1948. Gli interni girati presso gli stabilimenti romani della SAFA, in via Mondovì 33, la caccia al ladro, invece, si svolse lungo il reale percorso delle strade di Roma.

L’odissea di Antonio Ricci si apre, a Roma, a Val Melaina, all’epoca lugubre periferia, oggi quartiere del Nuovo Salario. Qui, lungo Via delle Isole Curzolane, abita il protagonista con la sua famiglia. Trovato finalmente lavoro come attacchino municipale, all’ufficio di collocamento in via Gran Paradiso (angolo via Scarpanto), riscatta a Piazza Monte di Pietà la bicicletta al prezzo delle lenzuola di casa. Antonio Ricci prende servizio come attacchino comunale all’ufficio di Via dei Montecatini in centro. La moglie, incredula, si reca a Via della Paglia, dove vive una Santona, per ringraziarla di averle predetto il giusto. Antonio inizia così a lavorare. Il primo giorno, attraversa viale Tirreno e via Nomentana insieme al figlio Bruno, finché lo lascia a Piazza Sempione presso la pompa di benzina dove il bambino lavora come garzone. Poi passa per Piazzale di Porta Pia in direzione del centro. Mentre è intento ad affiggere il manifesto di Gilda a Via Francesco Crispi gli viene rubata la bicicletta. Cerca di inseguire il ladro lungo via del Tritone finché non perde le sue tracce a via del Lavatore. Prosegue così verso il commissariato di Piazza (Fontana) di Trevi, vorrebbe che sguinzagliassero la Celere ma gli obiettano che «Una bicicletta è una bicicletta». Disperato, Antonio, torna a casa ripassando per Porta Pia, ma stavolta per prendere il filobus della linea 107 che lo riporterà a Piazza Sempione dove lo attende preoccupato Bruno. In compagnia del figlio, Antonio cerca conforto nei compagni della Cellula. Uno di loro, Baiocco, lo aiuta a cercare la bici prima a Piazza Vittorio, poi a Porta Portese. Nulla accade. Comincia a piovere e nei dintorni della Chiesa di SS. Nereo e Achilleo, in viale delle Terme di Caracalla Antonio crede di ravvisare il ladro. Ma gli sfugge di nuovo e riversa il suo sconforto sul figlio che si separa da lui sotto al Ponte Duca D’Aosta, in via Capoprati. Pentito, lo porta in una trattoria, L’antico Bottaro (frequentato da Trilussa, De Chirico, Mastroianni, Sordi, Gassman, Totò, Guttuso, Kissinger, Agnelli, De Gasperi, Sinatra e persino Andreotti che non amava i contesti neorealisti), sulla Passeggiata di Ripetta per fargli mangiare la mozzarella in carrozza. L’ultima speranza è in un bordello di via della Campanella, traversa di via di Panico. Del ladro non c’è traccia. Dopo aver vagato per il Lungotevere Flaminio, si ritrovano così a Piazzale dello Stadio Nazionale, di fronte all’odierno Stadio Flaminio, al termine del loro pellegrinaggio, per prendere l’autobus. È domenica, si gioca Roma-Modena. Antonio è circondato dalle migliaia di biciclette dei tifosi. Tenta di rubarne una ma in Via Pietro da Cortona viene preso, malmenato e umiliato di fronte al figlio. Il dramma di Antonio Ricci, ora nuovamente disoccupato, si chiude qui. Padre e figlio si prendono per mano camminando verso un futuro incerto.

Tre colpi di scena
Proprio il giorno in cui iniziò la lavorazione del film Maria Mercader seppe di essere incinta di Manuel. Sembrò una coincidenza di buon auspicio.
L’intera troupe era emotivamente coinvolta nell’impresa ed eseguiva tutte le direttive del regista senza fiatare. Durante le riprese a piazza Vittorio, De Sica pretese dall’ispettore di produzione Roberto Moretti di riuscire a evitare il passaggio dei tram. Il solerte Moretti, che non aveva nemmeno il permesso di poggiare il cavalletto della macchina da presa in terra, si travestì da controllore tramviario deviando tutte le circolari che transitavano in prossimità della piazza scatenando proteste da parte di autisti e passeggeri. Riuscì a resistere fino a fine riprese, ma poi fece anche in tempo a essere arrestato.
Quello stesso giorno il bambino Ettore Scola, andando a scuola, trovò la piazza occupata dalla troupe di De Sica. Chi attirò la sua attenzione fu proprio il regista: «C’era lui che sussurrava nel megafono. Perché Vittorio non urlava mai, ma sussurrava delle raccomandazioni ai due attori: “Ecco prendi per mano tuo figlio, attraversa la piazza…”. E c’era questa voce bellissima di Vittorio che non dirigeva un film, dirigeva una piazza, dirigeva i movimenti delle persone, dirigeva i sentimenti di queste persone».
Si aggiunsero poi le musiche di Alessandro Cicognini (già autore della colonna sonora di Sciuscià), perfettamente sulla corda del film, che contribuirono in maniera determinante a creare l’immaginario sonoro della storia.
L’8 ottobre 1948, mentre il girato del film si trovava in lavorazione nella sede della Safa per il montaggio, lo stabilimento venne devastato da un incendio e chiuse per sempre. Prima che fosse troppo tardi, però, la pellicola riuscì a essere sottratta alle fiamme.

La serata più emozionante della vita
La prima proiezione fu allestita la mattina del 24 novembre del 1948, settant’anni fa, per un pubblico di studenti al cinema Barberini. De Sica e la Mercader entrarono quando la sala era buia, di nascosto, e si sedettero sulle ultime file. Lui era così emozionato da indurre Roberto Rossellini a infilargli tra le labbra una sigaretta riportandolo così a riprendere un vizio che il film stesso con la sua preparazione era riuscito a togliergli. Gli studenti applaudirono, ma per un po’ quelli rimasero gli unici consensi. La prima italiana fu fissata per il 22 dicembre 1948 nella girandola dei film di Natale. De Sica andò insieme alla compagna incinta di sei mesi a Napoli, città che il regista considerava sua, per vedere come sarebbe stato accolto il film. Lei durante il viaggio si sentì poco bene e rimase in albergo aspettando il ritorno di De Sica dalla proiezione. «Come è andata?». «Non è piaciuto». Intanto a Roma al Metropolitan toccò proprio a Duello al sole di Selznick, il produttore che voleva imporre Cary Grant, sostituire la storia di quella piccola odissea attorno a una bicicletta.
De Sica era scoraggiato. Si sentiva mortificato soprattutto verso chi aveva creduto in lui: Graziadei, Bernardi e Cicogna. Andò allora a Parigi per tentare di vendere il film. Il film per fare presto ed evitare la burocrazia doganale fu portato a Parigi in quattro pizze dall’avvocato Graziadei nella propria valigia sotto la protezione del passaporto diplomatico con il quale in quel momento viaggiava. Organizzò una serata per artisti alla Salle Pleyel, dove erano convenute tremila persone, il meglio della cultura francese (da Renè Clair a Jean Cocteau). «Ogni volta che ci penso – ricordò lo scrittore e regista Mario Soldati – penso a Gide: quando, a Parigi, dopo la proiezione privata del film, André Gide, con il suo plaid di cachemire intorno alle spalle come un liturgico rocchetto, si alzò e andò ad abbracciare Vittorio, dandogli così la sua letteraria, quasi ecclesiastica benedizione. Ah, come avrei voluto essere io al posto di Vittorio! Come gli ho restituito, per quel momento supremo, l’invidia affettuosa con cui, sedici anni prima, lui soleva fissare me, un giovane letterato espulso dagli USA e disperato transfuga nel mondo del cinema».  Fu un successo. «Peccato che non c’eri – disse alla Mercader – è stata la serata più emozionante della mia vita». Lei non sarebbe potuta esserci. Il 24 febbraio 1949 era nato Manuel.

Momenti di gloria
Nell’arco della stagione 1948-49, però, fu visto da quasi tre milioni di spettatori e vinse tutto, come mai nessuno prima (fu presentato come «Il film più premiato al mondo»): Oscar, Golden Globe, Bafta, Globo d’Oro, sei Nastri d’Argento (film, regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia e colonna sonora), premi in Belgio (Grand prix international du festival mondial du film et des beaux-arts de Belgique e Grand premier prix Saint-Michel du festival de Knokke-le-Zoute), Locarno (Prix social du festival du film de Locarno), New York (due National Board of Review Award per film e regia e il New York Film Critics Circle Award), Londra (British Academy Film Award al miglior film), Giappone (Premio della critica), India (Certificato al merito), Spagna (Gran Premio), Danimarca (Primo premio), Irlanda (Award) e Portogallo (Premio della critica).  E divenne il più visto di sempre, insieme a Tempi Moderni.
Il poeta Attilio Bertolucci, padre del futuro regista Bernardo, sulla Gazzetta di Parma del 27 gennaio 1949 scrisse: «C’è da dire e subito, che da un punto di vista puramente artistico Ladri di biciclette è cosa assai superiore, più delicata e poetica e, scusate la parola grossa, universale. […] Che cosa di questa umile cronaca quotidiana abbia saputo fare De Sica vedrà ogni spettatore: non v’è un’inquadratura convenzionale, ogni gesto e sguardo è vero, ogni ambiente è paesaggio urbano e intenso di luce (o ombra) vera, ogni situazione credibile eppure patetica. Si pensa a certe minime illuminazioni psicologiche (il bambino che scappa un istante e s’accosta al muro perché, anche per l’ansia, non ne può più) alla grande lezione che Ĉechov con i suoi drammi e novelle ci ha dato. E ancora da citare la lite del padre col bambino, forse la cosa più bella del film, e tutto il resto infine: che non c’è nulla da buttare via. […] Zavattini e De Sica ci hanno dato un film memorabile, che farà bene, speriamo, al pubblico intossicato da tante drogate scemenze. E Oscar o no, per noi il bambino è il più incantevole attore di questi anni».
La fama di Ladri di bicilette non si spense nel tempo. Anzi, il film continuò a essere ammirato, elogiato e premiato. Quattro anni dopo la sua uscita, venne ritenuto il più grande film di tutti i tempi dalla rivista cinematografica britannica Sight & Sound. Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre nella Confrontation des meilleurs films de tous les temps, una lista dei primi dodici capolavori stilata da una giuria internazionale di critici indetta dalla Cinémathèque de Belgique per l’Esposizione Universale di Bruxelles. Ladri di biciclette venne in seguito inserito nella lista dei cento film italiani da salvare, e venne inoltre classificato nella quarta posizione nei “100 migliori film del cinema mondiale” (non in lingua inglese) dalla rivista Empire e in seconda in quella della BBC (sempre di film non in lingua inglese). Fu anche incluso in una lista di 39 film non americani consigliati dal regista Martin Scorsese.
Per essere stato il primo film a superare la contraddizione dell’azione spettacolare, il critico André Bazin lo considerò l’esempio perfetto di cinema puro. «Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema».  «Se dovessi indicare un capolavoro del cinema sceglierei questo» disse una volta Woody Allen. Una sentenza non dissimile da quella pronunciata da Robert Altman: «Quando ho dovuto mostrare cosa intendessi per massima espressione dell’arte cinematografica ho scelto Ladri di biciclette». Non fu un caso quindi se alla domanda su chi fosse il più grande narratore del Novecento, Cesare Pavese rispose facendo il nome di Vittorio De Sica.
E così quel film ignorato dai produttori italiani e osteggiato da una classe politica che si avviava alla restaurazione ancora oggi viene inserito dai critici di tutto il mondo tra i primi dell’intera storia del cinema insieme a Quarto potere, L’avventura, Otto e mezzo, Vertigo, La corazzata Potëmkin e pochi altri.
Premi e denaro non riuscirono a spegnere l’immaginazione, anzi, Ladri di biciclette, riuscì a guadagnare abbastanza per pagare i debiti di Sciuscià. Ma ciò che rimase non bastò a realizzare un altro film. Fu in quel momento, all’apice della sua gloria, che Vittorio De Sica capì che per vivere e girare film sarebbe stato condannato a recitare nelle storie altrui fino alla fine dei suoi giorni.

La fine di un’epoca
Nell’ultima delle sue apparizioni parlò proprio di Ladri di biciclette raccontando come riuscì a ottenere il pianto del piccolo Bruno nel finale del film. Lo fece durante una manifestazione di beneficenza organizzata dal quotidiano Paese Sera che si era svolta a Roma e che il regista Ettore Scola ebbe occasione di riprendere. In mezzo alla folla lui raccontava divertito: «Misi le cicche senza farmene avvedere nelle tasche di Enzo e dissi: “Ma Enzo perché non piangi, che c’hai in tasca le cicche? Ma allora sei un ciccarolo?”. Lui pianse e io girai». Quella confidenza pubblica (falsa, raccontata solo per fare teatro) andò a far parte di C’eravamo tanto amati, film che, inizialmente, avrebbe dovuto raccontare le vicende di un professore di provincia folgorato da Ladri di biciclette al punto tale da abbandonare tutto per “pedinare” per il resto della sua vita il regista. Per evitare di realizzare un film di sapore eccessivamente cinefilo, Scola, insieme agli sceneggiatori Age e Scarpelli, decise di alleggerire la parte e di allargare a tre i personaggi, aggiungendo la figura di un borghese e quella di un proletario.
De Sica, fece in tempo a vedere una copia lavoro e morì mentre la pellicola era in fase di missaggio. Quel film fu dedicato a lui. Quelle immagini un po’ rubate furono le ultime che lo ritrassero in uno schermo. E fu bello che fossero vere, che parlassero proprio di Ladri di biciclette e che a filmarle fosse stato proprio il regista che da bambino, era rimasto folgorato nel set di quel film, perché quella lunga storia si era chiusa come la ruota di una bici. Scola aveva iniziato il suo viaggio vedendo De Sica sul set di Ladri di bicilette e De Sica aveva terminato il suo parlando di Ladri di biciclette in un film di Scola.
Quando Suso Cecchi D’amico terminò di rincorrere i suoi ricordi ebbi come l’impressione che fosse calato il sipario su una stagione irripetibile. Lei mi aveva appena raccontato la storia di un mondo dove gli spazzini aiutavano un disgraziato a ritrovare la sua bici e dove i registi mettevano gli amici nei titoli di testa per fargli guadagnare qualche soldo. Glielo feci capire. «C’erano una solidarietà e un’amicizia che ora non esistono più – confermò – La nostra vita era diversa, si svolgeva tutta nei caffè, le nostre riunioni erano attorno ai tavolini, magari a fianco a te c’era la riunione per un altro film e ci si scambiavano idee. Era tutta una vita in comune». Una vita che ora, come la bici di Antonio Ricci – è scomparsa nel nulla.

Un pessimo servigio alla patria
Spesso viene riferita a questo film la battuta attribuita a Giulio Andreotti contro il neorealismo «I panni sporchi si lavano in famiglia», in realtà mai pronunciata, ma ormai leggendaria, al punto da essere citata nel film C’eravamo tanto amati.

Vero fu che il 28 febbraio 1952 apparve sulla rivista democristiana Libertas (anno I, n. 7) un articolo di Andreotti, intitolato “Piaghe sociali e necessità di redenzione” nel quale l’allora sottosegretario (31 maggio 1947 era diventato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi) prendeva pubblicamente le distanze dai film di De Sica: «Domandiamo all’uomo di cultura – scriveva Andreotti – di sentire la sua responsabilità sociale che non può limitarsi a descrivere i vizi e le miserie di un sistema e di una generazione ma deve aiutare a superarli». Proseguendo poi: «E se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria». Esortandolo poi a cambiare registro: «Noi ci auguriamo sinceramente che egli non si fermi a raccogliere soltanto le male arti delle donne traviate, i furfantelli della cronaca nera, l’isolamento sterile dell’una o dell’altra sotto-classe. Ma che faccia spaziare invece il suo obbiettivo sopra un campo più vasto di esperienze, rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene che, individuati, fruttificano e che bilanciano la marea del male». Sottolineando infine diritti e doveri: «Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticar mai questo minimo impegno di un ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l’umanità a sperare e a camminare. Ci sembra che il ruolo mondiale dal nostro regista meritatamente acquistato dia a noi il diritto di richiederlo e a lui il dovere di perseguirlo».

L’ultimo uomo sulla terra
L’evento dinamico per eccellenza, come in qualunque altra sceneggiatura che si rispetti, era riuscito a incollarci alla sedia con una domanda: riuscirà il nostro eroe a trovare il ladro? L’epilogo ci nega l’happy end, ma, incredibilmente e senza merito alcuno, questa impresa è riuscita a me. Nel film c’erano anche altri volti (come Memmo Carotenuto, Nando Bruno o Sergio Leone, che interpretava un prete) e altre voci (quelle di Aldo Fabrizi e di Alberto Sordi prestate rispettivamente al netturbino Baiocco e a un venditore di biciclette). Ci hanno lasciato tutti. Di quel lontano passato però esiste ancora qualche tessera. Oltre a Enzo Staiola, che, seppur straordinario, vide il film con gli occhi di bimbo (ha spesso detto: «Io non me ne sono neanche accorto»), tra tutti gli uomini che fecero Ladri di biciclette uno è rimasto ancora in vita: Vittorio Antonucci, il ladro. Allora, con i suoi vent’anni, era già adulto. Per una serie di casualità lui è l’uomo nel quale mi imbatto quasi tutti i giorni per le strade del mio quartiere. Spesso sono io che involontariamente mi ritrovo a pedinarlo, a offrigli un caffè a porgli qualche domanda. Il suo vero nome è Remo (l’altro fu usato per ragioni burocratiche legate all’amministrazione), ha novantuno anni, il passo svelto, un vestito scuro, il saluto galante e una magrezza senile che lo ha riavvicinato alle sembianze giovanili del film (a dir la verità il suo volto attuale, quello di Staiola adulto e quello di Maggiorani nel film, nel loro essere scarni e spigolosi, sembrano assomigliarsi molto). Appartiene alla generazione di quelli che hanno fatto qualunque lavoro nella vita, quelli che, con alterne fortune, si sono dovuti arrangiare in mille modi, quelli per i quali fare “un” Ladri di biciclette era solo un modo come un altro per guadagnare qualcosa, non il passaggio unico verso l’immortalità. E ancora oggi, alla sua età, passa le sue giornate facendo commissioni in giro per i palazzi, perseguendo magnificamente la sua dignità e continuando così a vivere, se possiamo dirlo, neorealisticamente. Quando ci penso mi fa un certo effetto sapere che sia l’ultimo uomo sulla Terra ad aver fatto quel film. Dopo Ladri di biciclette, diversamente da tutti gli altri attori, non avrebbe mai più recitato, ma la sua vita, la sua dignità e la sua presenza oggi sono un ulteriore segno che quel film, settant’anni dopo, è ancora vicino a noi. E che un frammento di quel mondo, scomparso nel nulla, incredibilmente è ancora vivo.

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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