Indovina chi viene a cena
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Indovina chi viene a cena
Michele Serra
Martedì 18 novembre 2025

Indovina chi viene a cena

«Disobbedisco ai neuroni-sentinella e mi iscrivo al giochino social del momento, “preferisci Melania Trump o Rama Duwaji?”, molto praticato nei peggiori siti social d’America»

Melania Trump assieme a suo marito durante una visita nel Regno Unito lo scorso settembre (Doug Mills-Pool/Getty Images)
Melania Trump assieme a suo marito durante una visita nel Regno Unito lo scorso settembre (Doug Mills-Pool/Getty Images)

I miei neuroni-sentinella, quelli addetti al quieto vivere, mi hanno gridato all’unisono: non farlo! Ti metti nei pasticci! Rischi, in un colpo solo, di cadere in tutti i luoghi comuni del vecchio maschio giudicante, di commettere body-shaming, di impelagarti in dissertazioni da bar (maschile) sulle femmine, per niente contente di essere oggetto della ciancia in questione. Per carità non farlo! Hai una reputazione! Ignora l’argomento!

Ma non resisto. Disobbedisco ai neuroni-sentinella e mi iscrivo al giochino social del momento. È il giochino “preferisci Melania Trump o Rama Duwaji?”, molto praticato nei peggiori siti social d’America. Il quesito ha molto di respingente (si parla di due “mogli di”, in mancanza di analogo derby social tra “mariti di”); ma ha anche qualcosa di irresistibile, qualcosa che ci parla di noi non così superficialmente come farebbe supporre il tono sudaticcio, quando non esplicitamente greve, adottato da molti dei maschi partecipanti. Nel senso che per davvero vanno in scena rilevanti differenze non solo e non tanto interne allo sguardo maschile (quello di Trump e quello di Zohran Mamdani evidentemente non coincidono: ma già lo sapevamo); ciò di cui si parla è soprattutto il grado di indipendenza dallo sguardo maschile, di libertà dal medesimo, che ogni donna sa o non sa, vuole o non vuole mettere in campo. E anche se, come diceva il poeta, non sappiamo più bene “cos’è la destra, cos’è la sinistra”, solo una neutralità ideologica che rasenta il coma intellettuale e la cecità estetica potrebbe impedirci di riconoscere che sì, effettivamente, le due signore incarnano “modelli” femminili clamorosamente e quasi archetipicamente divergenti. Fare di finta di niente magari è educato: ma non è proprio possibile.

Poi, intendiamoci: magari nel privato, quando è sicura che nessuna e nessuno la vede, Melania Trump brucia nel caminetto le scarpe con i tacchi a spillo, traduce Beckett in sloveno e telefona in segreto a Greta Thunberg per tenerla informata sui misfatti ambientali del marito (“non ci crederai, Greta: quel pazzo vuole mettere la caldaia a carbone anche alla Casa Bianca!”). E Rama Duwaji, sempre quando nessuna e nessuno la vede, è devota solo ai palinsesti di Fox, cestina con disgusto le sue illustrazioni per il New Yorker e rimpiange di non avere fatto la cheerleader, vero sogno della sua vita.

Ma queste sono illazioni che, per fortuna, riguardano solo le due signore, la loro vita “vera”, quella privata della quale, come è giusto che sia, noi sappiamo ben poco; comunque non abbastanza per sputare sentenze non richieste. Sulla scena pubblica il discorso cambia: e non c’è dubbio che una ex modella alta e bionda, con i capelli lunghi e lisci alla Barbie, anche se grazie a Barbie (il film) abbiamo imparato quanti e quali pensieri agitano la mente e il cuore delle alte e bionde con i capelli lunghi e lisci, ci appare come una tipica “moglie di rappresentanza” per mariti che amano le donne di rappresentanza. Che li seguono due passi indietro, silenziose e sorridenti, molto curate e molto in ghingheri, e quando entrano in un luogo pubblico tutti gli occhi dei presenti si accendono (“bella, che tuo marito ne è superbo”, canta Paolo Conte). Qualcosa che, esteticamente e socialmente parlando, è come se fosse modellato e levigato da generazioni. Così modellato e levigato che (parlo per me, almeno) distinguere una bionda americana “tipo Barbie” da un’altra, non è per niente facile.

All’opposto, una ragazza siriana nata in Texas che fa l’illustratrice e la ceramista a New York, si veste in maniera molto informale, porta il suo cognome (a proposito, Melania Trump si chiama, anzi si chiamerebbe, Melania Knauss), porta la sua faccia mediorientale bene al riparo da levigature e “correzioni” e anche per questo è inconfondibile, non ha seguito il marito nella campagna elettorale: beh, la differenza c’è e non solo si vede, ma non vederla è impossibile.

Non frequento i social, men che meno i profili e le discussioni americane, e dunque non so dirvi quanto, nel match tra le due opposte tifoserie, sia focalizzato sull’estetica: ma temo molto, perché lo sguardo maschile, in larga maggioranza, è penosamente avvezzo, e forse condannato, a vagliare le donne come fanno i sensali con i capi di bestiame. Non so se ci siano apprezzamenti, tra le migliaia di partecipanti alla discussione social, sulla dentatura delle due signore, ma non mi stupirebbe.

Peccato, perché la questione “preferisci Melania o Rama?” toccherebbe altri argomenti molto ma molto consistenti, per non dire determinanti: domandarsi, per esempio, che tipo di conversazione ci si aspetta uscendo a cena con l’una o con l’altra; e soprattutto, che tipo di conversazione dovrebbe, un maschio, essere in grado di garantire, nel caso l’una o l’altra avessero l’idea, molto improbabile, di invitare a cena questo o quello dei maschi radunati a capannello (un capannello di molte migliaia di persone) davanti alle loro immagini. L’esperienza insegna che, passato il colpo d’occhio, l’intera faccenda si apre a molte altre variabili. Basta un paio di frasi, a volte, a far sembrare meno bello un bel volto (femminile o maschile non importa). E basta un paio di frasi a rendere intenso e interessante un volto che un minuto prima non lo sembrava.

A questo punto: sarei ipocrita se non mi esponessi. Inviterei a cena, o mi farei volentieri invitare a cena, sicuramente da Rama Duwaji, e non perché io sia così banalmente “di sinistra” (anche se lo sono…). Ma perché sarei sicuro di riconoscerla davanti al ristorante. Per riconoscere Melania Trump senza possibilità di errore, dovrei dirigermi verso il gruppo delle guardie del corpo. E anche sulla scelta del ristorante, sono arcisicuro che sarebbe più facile trovarmi d’accordo con Rama.
Adesso che mi sono esposto così spudoratamente, potrei proporre lo stesso giochino scemo (però rivelatore) alle lettrici di Ok Boomer!, che sono tante e di ogni età. Il problema è che “preferisci Donald o Zohran?” non è un quesito proponibile. Non c’è proprio gara, a partire dal punto di vista anagrafico.

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La settimana scorsa ho scritto di riforma della magistratura e di cachi. Sono arrivate tre o quattro lettere sui magistrati, una montagna di lettere sui cachi. Facciamocene una ragione. Questo può voler dire che la comunità dei miei lettori ha una deplorevole mancanza di spirito civico, e snobba questioni di grande rilievo politico. Ma può anche voler dire che la natura, in tutti i suoi aspetti, è tenuta in grande considerazione, e dunque posso dirmi fiero di voi. La natura non è soltanto un potere autonomo, tanto quanto la magistratura, è anche un potere primario: viene prima di tutte le altre cose. E non si finisce mai di conoscerla. Per esempio, lo sapevate che…

“I cachi in Italia li ha importati per primo Giuseppe Verdi, li assaggiò a Parigi e decise di piantarli a Sant’Agata. Si fece mandare le piantine dai fratelli Ingegnoli, famosi vivaisti in Milano. Li ringraziò con questa lettera: ‘Sant’Agata, 21 Marzo 1888. Ricevetti la cassettina con entro i sei kaki, e la gentilissima lettera. Io non posso che ringraziarvi della squisita gentilezza ed augurarvi che presto sia anche da noi conosciuta ed apprezzata questa pianta i cui frutti sono splendidi. Con tutta stima saluto’. Dev. G. Verdi”.
Marco Dell’Acqua (autore del libro Milano in tutti i sensi).

Dato a Verdi ciò che è di Verdi, ecco qui di seguito una piccola saga dei cachi e sui cachi; e dei frutti che trascuriamo di raccogliere anche quando sono gratuiti, anzi soprattutto quelli gratuiti, quelli che basterebbe allungare una mano. Forse siamo così abituati a vedere il mondo confezionato, etichettato e munito di codice a barre, che non ci accorgiamo più di ciò che non è merce: è soltanto natura.

“Il sindaco di Parma, Giacomo Ferrari, nome di battaglia Arta, ministro dei Trasporti nel governo De Gasperi (qualcuno dice il miglior ministro dei Trasporti del dopoguerra – sicuramente meglio di Salvini, non che ci voglia molto) negli anni Cinquanta piantumò numerose strade con piante di cachi con l’obiettivo di contribuire a sfamare le famiglie povere di Parma. I tempi e gli uomini erano quelli”.
Enzo Forlesi

“Qui a Parma si tiene la festa del raccolto urbano, mi è capitato di leggerlo sui social la scorsa settimana. In una via della città dove gli alberi di cachi sono particolarmente presenti (e carichi), sabato 22 novembre dal mattino fino al primo pomeriggio si svolgeranno raccolta e distribuzione di cachi oltre a degustazioni e altre attività. Una bella iniziativa per non sprecare quel raccolto prezioso che in questo periodo vediamo spesso andare perduto”.
Gloria Caleffi

“All’ inizio di questo secolo le tradizionali ‘lape’ dei venditori ambulanti del mio paese in Sicilia (chiamasi così il veicolo a tre ruote detto altrimenti “Ape”) smerciavano spesso i cachi in quantità di 7 (sempre dispari) e al prezzo di mille lire. Pronunciando in siciliano il cartello di cartone inneggiante l’offerta: ‘setti cachi milli liri’, (se ti cachi, mille lire…). Certamente varrebbe anche in euro e probabilmente anche in altri dialetti”.
Giovanni

“Qui a Ginevra i cachi molli, italiani e non, sono venduti in confezioni rigorosamente da quattro. Ed anche in Valais. Posso supporre in molti posti in Svizzera”.
Gianmaria

“L’albero dei cachi in Toscana si chiama più poeticamente (?) diospiro e un bosco (frutteto) di questi alberi: diospireto”.
Valter Ballantini

“Qui sul Lago Maggiore, sponda nord-ovest, proprio nessuno li raccoglie. E dato che io ne vado matto ho fermato l’auto sotto un albero che stava sul bordo della strada e ho allungato la mano per raccoglierne qualcuno. Ma subito una voce dalla finestra di fronte mi apostrofa: Ma se io venissi a casa sua e mi mettessi a raccogliere i suoi cachi, lei cosa ne direbbe?. Mi sono venute in mente almeno dieci risposte valide: che ho ben visto tutti gli anni che nessuno raccoglie i cachi di quella pianta, che comunque sporgevano sulla strada e quindi tecnicamente erano di libera raccolta, che se la signora fosse venuta a casa mia a raccogliere qualche caco (o fico, o mela) non avrei avuto troppo da ridire. Ma sono un po’ arrossito e mi sono defilato con la coda tra le gambe, lasciando i tre cachi raccolti sul muretto”.
Mario Saroglia

“Io, come Marcovaldo, raccolgo ciliegie dai ciliegi da fiore che buttano rami selvatici da sotto l’innesto, nespole dalle piante che le offrono fuori dalle cancellate e ovviamente cachi, prugne e fichi. Mi sorprende spesso che mi chiedano cosa sto facendo, se sono buoni, se mi fido, e pochissimi mi hanno imitato. Nessuno mi sembra osi prendersi responsabilità neppure quando il rischio può solo essere di dover sputare un frutto aspro o amaro. Pare che tutti si aspettino da altri una certificazione, una autorizzazione”.
Bernardo

“Un nostro vicino di casa che avevamo soprannominato Scrooge e se ne intendeva di frutta e verdura, in quanto proprietario di campi e commerciante, mi insegnò un metodo infallibile per far maturare i cachi: staccarli dal ramo quando sono ben sodi, metterli in una borsa di plastica (quella che da Roma in giù chiamano “busta”) con alcune mele e riporre in frigo. Risultato garantito, lo dico per esperienza: dopo un paio di giorni ho dovuto buttare la poltiglia nell’umido e la borsa, lavata, nella plastica. Per fortuna i cachi sono l’unico frutto che non mangio e non apprezzo. Li regaliamo ai vicini di casa o li lasciamo sull’albero fin quando non si spiaccicano al suolo”.
Maria Luisa dal nord est, intorno a Monfalcone.

“Anch’io ho un albero di cachi nel prato della casa in affitto dove abito ed è uno spettacolo quotidiano il suo cambiamento in autunno (la mia stagione preferita). Anche qui i cachi non li raccoglie nessuno, invece io ne faccio incetta perché ne sono ghiotta. Da ex cittadina, mi stupisce come le persone che abitano in campagna non raccolgano la frutta dagli alberi “selvatici”: fichi, noci, noccioli, castagni, rovi di more, corbezzoli, gelsi. Quando è stagione, vado a cercarli e torno a casa felice con cesti e buste piene di questi doni da gustare subito o da trasformare in marmellata”.
Carolina

Davide mi manda un video dei Fuori Tempo, young band di Arsiero (Vicenza). La giovanissima vocalist canta in dialetto, accompagnata da vigorosi fiati, una vera e propria Ode al caco. “Raccogli il caco/ingiustamente abandonà”. Claudio e altri lettori suggeriscono di farli seccare. Mi rimane da aggiungere che quest’autunno ho dimenticato di andare, lungo un sentiero che so io, a raccogliere un paio di ceste di fantastiche mele selvatiche, rosse e bianche, piccole e deliziosamente asprigne. Spero che le abbia raccolte qualcun altro, ma ne dubito: qui tutti, anche chi abita nei casolari sperduti, frutta e verdura le vanno a prendere al supermercato.

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Dopo Auden e dopo Pascoli, la nostra piccola collezione di letteratura sulla nebbia si arricchisce grazie a Gaia, che mi segnala un brano di prosa. Impressionante la qualità della scrittura. Rileggere Beppe Fenoglio!

“Pensando al suo post sulla nebbia, ma anche un po’ a quello sull’Occidente, mi sono venute in mente alcune pagine di ‘Una questione privata’ di Fenoglio. Quarto capitolo: ‘All’angolo dell’ultima casa si arrestò netto. Aveva sentito sulla rampa sassosa il passo di una mezza dozzina di uomini. Il passo era quello inconfondibile, lungo e rapido, dei partigiani ragazzi di città. Salivano muti, evidentemente con gola e polmoni intasati dalla nebbia. (…) Ancora turbato, uscì nella campagna. Aveva deciso di aspettar Giorgio all’aperto (…) La strada era invasa dalla nebbia, ma c’erano ancora spiragli e ondeggiamenti. I valloni ai due lati ne erano invece colmi rasi, di un’ovatta assestata, immota. La nebbia aveva anche risalito i versanti, solo alcuni pinastri in cresta ne emergevano, sembravano braccia di gente in punto di annegare”.

Nebbia di città, nebbia di campagna: spiega bene la differenza un lettore dal nome importante.

“Mi chiamo Nike (si legge “niche”), assiduo lettore di diciannove anni, e la poesia sulla nebbia mi ha molto colpito (tanto che mi ha fatto perdere la fermata del filobus). Proprio oggi la nebbia ha piacevolmente avvolto la montagna di fronte a casa mia, che si chiama Mottarone. Mi sono da poco trasferito a Milano per motivi di studio e ho notato che, da quelle parti, l’unica nebbia che si vede è quella lattiginosa e sporca dello smog, oppure è quella sorta di appannamento del cielo notturno causato dall’inquinamento luminoso, che impedisce di vedere le stelle. La mia zona, invece, in autunno e in inverno, ospita ancora la bella nebbia bianca e compatta che è stata descritta da altri lettori: quando ero bambino (un periodo non così lontano nel tempo), i giorni in cui lei arrivava i miei fratelli mi dicevano: hanno rubato il Mottarone! E io ci credevo, ovviamente. Oggi, anziché immaginare furti montani, posso ancora apprezzare quella lenta pigrizia che si accompagna sempre alla nebbia e che, senza riuscire a fermarmi o a isolarmi davvero, mi costringe comunque a rallentare un po’. In alto i cuori, talmente in alto da riposarsi nel vapore bianco”.
Nike

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Al posto delle Zanzare, che saltano un turno, una breve notizia che ne fa le veci: nel senso che comunica la stessa stupita incredulità per quanto gli umani possono dire e fare di strano, di buffo, di goffo, di improvvido. Ieri, domenica 16 novembre, era la Giornata mondiale delle vittime degli incidenti stradali, istituita dalle Nazioni Unite. Non si sa se per celebrarla o per contestarla, i Fratelli d’Italia romani hanno organizzato una “Sfilata di automobilisti” per dire “No alle ztl, no alle piste ciclabili inutili, no ai 30 all’ora in città”. Come diceva sempre Simona Marchini: che avranno voluto dire?

Oggi piove che Dio la manda, come diceva mio padre. Tutto è guazza, nebbia bassa, umidità che grava sul mondo. Tutto così grigio che fatico a distinguere quali uccellini stanno abboffandosi alla mangiatoia davanti alla cucina. Cince? Codirossi? Pettirossi? Fringuelli? Non si vedono i colori, tutti sembrano ugualmente bigi. Arriva l’inverno e loro lo sanno, a parte i semi becchettano avidamente il panetto di burro appeso al pergolato: cercano di immagazzinare grassi per difendersi dal freddo. Ce la faranno quasi tutti, ne sono certo, a passare l’inverno indenni. Con loro ho un rapporto molto simile a quello di Snoopy con Woodstock. Io nella casetta, loro perennemente in visita. Abbiamo parecchie cose da dirci, anche se non parliamo la stessa lingua. In alto i cuori.