Il lato populista della Forza

C’era un articolo di Nadia Urbinati su Repubblica di sabato. Diceva almeno tre cose importanti, e metteva carne al fuoco dell’analisi necessaria sui mutati tempi sociali e politici, quella di cui dicevamo qui.

Uno. Il populismo non è una cosa chiara, e la parola non basta a spiegare cosa stia succedendo. È una parola che abbiamo precipitosamente recuperato e reintrodotto nella discussione politica che ancora sei anni fa descrivevamo così, e su cui mi permetto una digressione.

«Ma nell’uso del termine populismo c’è anche un forte riferimento ai modi con cui il messaggio politico è trasmesso, principalmente attraverso la demagogia, ovvero l’assecondare (soprattutto a parole) le aspettative dei cittadini per ottenerne consenso, qualunque esse siano. Tanto è vero che oggi nel dibattito politico e giornalistico la parola populismo è usata spesso come sinonimo di demagogia. Ma un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia».

Tanto si potrebbe scrivere e si è scritto sulla sciocchezza che attribuisce a un “popolo” e alle sue presunte opinioni un maggiore valore di quelle di determinate élite o minoranze. Mi limito all’assurdità più palese: ovvero che “il popolo” non esiste. Se esistesse, e avesse una sola buona opinione, quale sarebbe “il popolo” tra quello che ha votato M5S, quello che ha votato Lega, quello che ha votato PD e quello che ha votato Berlusconi, ciascuno dei quali comprende milioni e milioni di elettori? E se uno solo di questi popoli è quello buono, allora non è più popolo: è élite, minoranza.
Quindi il “populismo” non è nemmeno una predicazione falsa: è una predicazione basata su un presupposto falso, alla stregua di implicare che la terra sia piatta. Il termine è oggi ancora di più una specie di sinonimo di “demagogia”: non un’idea o un progetto o un fine, ma un mezzo retorico di ottenere consenso dando ragione a tutti, come scrive Urbinati.

«Il suo opportunismo radicale può giustificare tutto per soddisfare le esigenze di quel che dice essere il “suo” popolo. L’ambiguità è la sua forza, ha scritto con soddisfazione Ernesto Laclau, che ammirò del populismo la capacità di costruire il soggetto collettivo (il popolo) con il solo strumento della retorica. Ed è vero, poiché i leader populisti possono con narrative spregiudicate unificare tante e diverse richieste come i partiti tradizionali cercano di fare con meno successo, perché hanno ancora confini identitari.»

Due. Non è detto che il diventare partiti di potere ed establishment metta in crisi i partiti populisti. Hanno nella loro natura vecchie e sperimentate dinamiche per gestire la contraddizione.

«Il potere conquistato può infatti essere rischioso poiché può facilmente farne un nuovo establishment. Di qui viene l’ attenzione quotidiana e quasi parossistica dei governi populisti a presentarsi come esenti dal male dell’ establishment, a rassicurare di essere sempre con e come il suo popolo. Questo sforzo può avere successo a patto di generare una permanente campagna elettorale. I populisti non possono semplicemente governare. Devono in primo luogo prepararsi a giustificare quel che non potranno fare o faranno male: per questo, si sollevano dalla responsabilità dei propri fallimenti attribuendola al “nemico” che sta fuori. I pregi saranno opera solo sua; i difetti saranno solo opera degli avversari. I quali, in tutti i governi populisti, hanno per questo una voce flebile e colpevolizzata.[…]
Per usare una metafora che descriva questa forma di maggioritarismo estremo, si potrebbe dire che il populismo al potere soffoca per troppo parlare, rendendo nana l’ opposizione, non solo perché resa oggetto di sospetto ma perché non ha altrettanto forti megafoni.»

Tre. Le opposizioni, se vogliono essere opposizioni a questo scellerato fenomeno epocale e non solo opposizioni a un governo passeggero, devono giocare un’altra partita. Questa la perdono, si è dimostrato.

«il populismo rischia di rendere gli avversari simili nello stile, ed è comprensibile poiché il ragionamento riflessivo non è né attraente né roboante. La trappola del populismo al potere è di indurre l’opposizione ad adottare il suo stesso stile, di diventare a sua volta populismo di movimento. È il rischio maggiore per la democrazia: che il populismo permei del proprio stile tutto il discorso politico e l’opinione generale. È una delle ragioni per cui i governi populisti rischiano di generare altri governi populisti ( un esempio che ci viene dall’America Latina). L’ onere e il compito dell’opposizione è doppio e doppiamente difficile: combattere punto su punto in Parlamento e nell’opinione le politiche del governo populista; ma farlo senza cadere nella trappola populista, senza farsi a sua volta populista.»

Trappola in cui l’opposizione è già ampiamente caduta (non parliamo dei mezzi di informazione, che non si sa se ci siano caduti o ne siano stati utili costruttori), e sarebbe saggio cominciare a divincolarsi.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).