Provo a pensare

L’attentato di mercoledì a Parigi ha riaperto molte diverse discussioni eterne e forse irrisolvibili, su cui però si può provare a pensare in modo indipendente dagli opprimenti dolore e rabbia (è assurdo che persino li si debbano ricordare) generati dalla strage di persone commessa da due trogloditi assassini e dalla disperazione che una cosa come questa mette addosso.
Ne elenco alcune, di queste discussioni, anche per distinguerle l’una dall’altra, che il loro groviglio sennò rende ancora più sventate molte cose che si leggono.

1) la questione della responsabilità delle religioni rispetto alle proprie depravazioni fanatiche
2) e di quella musulmana in particolare.
3) la questione del valore e del ruolo della satira nelle nostre società.
4) la questione di come si devono comportare i media in occasioni come questa rispetto alle loro consuete scelte editoriali.
5) la questione di cosa determina che “vince il terrorismo” o vinciamo noi.

Metto insieme un po’ di pensieri, premettendo che su alcuni di questi temi non credo si possano avere opinioni esatte, assolute e definitive: io comunque non le ho.
1) sostenere che la religione non abbia niente a che fare con le violenze compiute in suo nome è un atteggiamento pilatesco o sintomo di una coda di paglia, secondo me. Qualcuno dirà che si uccide anche in nome delle idee politiche o di altri pretesti: ma infatti noi temiamo e combattiamo anche le idee politiche che avvicinano alla violenza, e ogni altro pretesto che la generi (pensate agli abusati concetti dei “cattivi maestri” o del “brodo di cultura”). Le religioni non creano pensieri più violenti di altri, ma creano anche pensieri violenti che sono figli proprio di una lettura delle religioni, distorta o no. Oppure creano, almeno, intolleranze, pretese di limiti molto stretti. Finora, per capirsi, non si conoscono frequenti violenze in nome dell’ateismo (ogni tanto ribollicchia qualche anticlericalismo fanatico, ma grazie al cielo finora innocuo): e insegnare idee dogmatiche alimenta più facilmente il fanatismo che non coltivare il dubbio e la duttilità del pensiero, anche su Dio. Le religioni e i loro predicatori non sono tenuti a sentirsi in colpa di colpe che non hanno: ma a porsi il problema di quello che succede in loro nome e di come impedirlo, sì, piuttosto che negarlo (non è un tema molto diverso da quello della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica). Proprio in nome delle loro “buone fedi”.

2) la questione dell’Islam è delicata e spesso intrattabile. Non ci girerò intorno: per quanto diciamo che le religioni siano tutte uguali e Dio sia il Dio di tutti, esiste un Dio il cui nome viene pronunciato più spesso quando si scannano le persone. Al tempo delle Crociate era un altro, ricorderà qualcuno: ma ora non siamo più al tempo delle Crociate e i fatti di cui dobbiamo occuparci sono questi. Non credo mi interessi se l’Islam sia intrinsecamente più violento o se invece sia solo diffuso in società che sono loro più violente o più arretrate rispetto ai diritti e alle convivenza civile (ma come vediamo, fanatisimi islamisti assassini prosperano a Parigi, per esempio): guardo ai fatti e a da dove viene il terrorismo e da dove vengono le stragi. Non mi piace chi chiede – spesso strumentalmente per capriccio da curva – sterili esibizioni di sdegno ai musulmani: ma anche qui, non credo basti dire “sono un musulmano moderato” come se si vivesse in un altro mondo. Quando il comunismo sovietico o cinese rivelarono le loro abiezioni conosco molte persone di sinistra che ne soffrirono, se ne fecero carico, e furono le prime a prenderne le distanze e cercare di indicare quelle abiezioni come tali e combatterle. Idem per i terrorismi politici: pensate se il sostegno o l’indifferenza fossero rimasti così estesi.
Sostenere che alla religione musulmana vadano concesse indulgenze maggiori è una specie di razzismo all’incontrario.

3) la satira – l’ho scritto altre volte – è spesso diventata a sua volta una chiesa e un fanatismo. Chi la eleva a categoria speciale e assoluta, con dogmi (“la satira non conosce regole”, “la satira è contro tutti”, “questa è censura!”) analoghi a quelli delle religioni, si allontana totalmente dal suo spirito che dice di sostenere. La satira è utile e preziosa – come molte altre forme di cultura e comunicazione – nel momento in cui la sua libertà genera libertà di pensiero e maggiore consapevolezza della realtà: se la si legittima in quanto tale, in quanto satira, come una categoria superiore e inattaccabile, la si rende sterile e fanatica a sua volta e si diventa intolleranti. Ugualmente legittima e giustamente libera, ma sterile o addirittura dannosa per i suoi lettori e per le società che la ospitano, quando è mediocre, bugiarda, inutilmente violenta e non accetta critiche o scelte: né più né meno dell’informazione bugiarda, mediocre e irresponsabile. Il che non rende meno indispensabile difenderne la libertà di esistere (e la libertà di criticarla o disprezzarla, anche), ma è innegabile che vediamo spesso contenuti di satira che troviamo stupidi, deplorevoli o esercizio di routine professionale da parte dei loro autori: non fanno ridere, non fanno pensare, non fanno capire, al massimo segnano il punto per una curva. Come può avvenire per un articolo, un libro, un film, eccetera: libertà è anche libertà di criticare la satira.
Scrive Arthur Goldhammer:

To transform the shock of Charlie’s obscenities into veneration of its martyrdom is to turn the magazine into the kind of icon against which its irrepressible iconoclasm was directed.

Quindi penso sia sacrosanto difendere il diritto di satira, ma è intollerabile chi lo usa come alibi per difendere dalle critiche o dal disprezzo la propria satira: se la tua vignetta fa schifo, è stupida, è inutile, confonde l’intelligenza della satira con lo spararle grosse e disegnare molti culi e dire cacca cacca cacca, che io non la pubblichi non è censura (altra parola abusata dai vittimisti mediocri: questa è riprovevole censura, per esempio?): è una scelta editoriale tra le molte che si fanno ogni giorno.

4) in giorni come questi, però (purtroppo è successo altre volte), la pubblicazione o meno di vignette o altri contenuti non è più una questione di ordinaria amministrazione di qualità: intervengono altre priorità che è pavido fingere di ignorare. In molti che hanno deciso di non pubblicare le vignette hanno usato in questi giorni due argomenti: uno, che “non aggiungono niente” (risposta simile a una data rispetto ai video delle violenze assassine, ma questa è un’altra storia), e due, che “non pubblichiamo contenuti volutamente e inutilmente offensivi” (lo ha detto anche il direttore del New York Times, tra i dubbi della sua saggia Public Editor).
Entrambi i principi sono giustissimi (provate a pensare questo, per esempio): il problema è che non si applicano oggi.
Le vignette aggiungono: nessuna persona in buona fede può sostenere di avere la stessa identica idea di quello che è successo, delle sue ragioni, e di cosa significa, senza aver mai visto una pagina di Charlie Hebdo: se così fosse, perché allora pubblicare le foto dei disegnatori uccisi, per esempio? “Che cosa aggiungono?”
La verità è che il lavoro dei media è raccontare storie importanti nel modo più accurato e completo possibile: e come è fatto Charlie Hebdo e cosa offende i fanatici sono pezzi di questa accuratezza e di questa completezza.
E poi, questi contenuti non sono più, oggi, “inutilmente offensivi”: sono probabilmente offensivi, sì, per qualcuno, ma utili a capire per altri, e utilissimi a difendere una libertà di principio per tutti quanti (e nessuno pensa di pubblicarli perché li condivide: molti sono schifezze facili e pigre), a prescindere da come li giudichiamo. Il fatto è che pubblicarli, oggi, è rifiutarsi di pagare il pizzo.
Come spiegò il Post su un caso simile di cinque anni fa in cui grazie al cielo nessuno veniva ammazzato, dopo aver deciso di linkare una vignetta invece che mostrarla:

Non vogliamo offendere nessuno fino a che non ce ne sia bisogno per difendere qualcuno. Quel giorno, fosse anche domani, la homepage del Post ospiterà ben più che una vignetta.

5) il terrorismo vince, ha scritto qualcuno. Vuole fare paura, fa paura. Molte altre cose indicate sotto la formula “è darla vinta ai terroristi” non mi convincono. Per non dargliela vinta, dovremmo non avere paura, ma è impossibile: dovremmo fare come se niente fosse, ma è intollerabile.
Quello che possiamo fare, ed è difficilissimo, è continuare a essere diversi dai terroristi, e ad esserlo sempre di più, come disse in un bellissimo discorso dopo Utøya il primo ministro norvegese. E rendere quello che siamo un modello più forte e attraente di quello bestiale fanatico, lato oscuro della forza che governa gli umani.
Usare la forza per difendersi è indispensabile, oltre che giusto: mettersi nella stessa guerra in cui ci invitano, come si è visto, non migliora le cose. Alla fine, appunto, sono tutte cose che abbiamo già detto.

“Se vogliamo andare in giro per il mondo a schiacciare terroristi da Kabul a Manila, sarà meglio che ci assicuriamo di essere sempre i migliori cittadini e il migliore Paese possibile. Altrimenti lo perderemo, il resto del mondo”

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).