Lo eravamo

Come ho spiegato qualche giorno fa, penso che il tema dell’informazione corretta sia centrale e che intorno a questo crescano tutti i disastri politici, culturali e sociali delle nostre democrazie. Non è perché faccio questo lavoro che mi è cara l’informazione di qualità, come a un ortolano può essere caro che il grossista gli porti dei buoni pomodori. Penso che dall’informazione di qualità passi la qualità della crescita di una comunità, della sua civiltà, del suo essere soddisfatta e felice, in ultima analisi. E che ci passi la democrazia: che senza una buona informazione, da sola, è un feticcio sbandierato e inutile. Questa è una cosa che avevo scritto in Un grande paese, l’anno scorso.

Un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia.
Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra». Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.

E ogni quotidiano arretramento rispetto alla completezza e affidabilità dell’informazione, ogni abbassamento dell’asticella sia pure per un titolo di qua o per una leggenda metropolitana di là, sbriciolano un po’ di più quel sostegno della democrazia e concorrono un po’ di più a quell’investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini. Siamo più ignoranti e ci fidiamo di meno, e diventiamo ancora più ignoranti.

Ieri ho visto la prima puntata di The Newsroom, la nuova serie TV di Aaron Sorkin. Si apre con (spoiler! spoiler!) un dibattito in cui il giornalista protagonista cerca di eludere una domanda sulle ragioni per cui l’America sarebbe il più grande paese del mondo, stufo delle retoriche degli altri speaker di destra e di sinistra. Ma quando il conduttore insiste, sbotta e attacca un monologo appassionato e severissimo sulle ragioni per cui l’America non è il più grande paese del mondo, ricco di dati, citazioni e smentite alle retoriche suddette.

«…quindi quando mi chiedete cosa fa di noi il più grande paese del mondo, io no so di che cazzo state parlando! Di Yosemite?»

Poi si ferma.
E prosegue.

Lo siamo stati. Ci siamo battuti per quello che era giusto. Abbiamo combattuto per motivi morali, abbiamo approvato e bocciato leggi per motivi morali. Abbiamo condotto battaglie contro la povertà, non contro i poveri. Ci siamo sacrificati, ci siamo occupati del nostro prossimo, siamo stati coerenti con le nostre idee, e non ci siamo battuti il petto. Abbiamo costruito grandi cose, fatto progressi tecnologici incredibili, esplorato l’universo, curate malattie, e cresciuto i più grandi artisti e la più grande economia del mondo. Abbiamo toccato il cielo comportandoci da uomini. Abbiamo ammirato l’intelligenza, non l’abbiamo sminuita: non ce ne siamo sentiti inferiori. Non ci definivamo per quello che avevamo votato alle ultime elezioni, e non ci spaventavamo così facilmente. E siamo stati capaci di essere tutte queste cose e di fare tutte queste cose perché eravamo informati. Da grandi uomini, uomini che ammiravamo. Il primo passo per risolvere un problema è riconoscere che c’è: l’America non è più il più grande paese del mondo.

Ecco.


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).