Quando ti ricapita?

Conversazioni di ieri. La storia “Rosa tricolore” ha fatto ricordare la famigerata “visita ad Arcore” di Renzi, che ebbe tra le altre volatili e irrilevanti conseguenza, quella più concreta e spiacevole di aggravare una serie di chiamiamole incomprensioni tra lui e Civati. A Civati quella gita non piacque e ne scrisse sul suo blog, richiesto di spiegazioni dai suoi lettori ed elettori. A Renzi non piacque che Civati prendesse le distanze. La cosa contribuì a un leale ma solido allontanamento tra i due, di cui scrissi già estesamente.

Matteo Renzi e Pippo Civati hanno fatto un errore enorme a separare le loro strade. Non mi interessano le motivazioni di ciascuno di loro, di cui sono pure stato ampiamente edotto: se brucia la casa e tu hai l’idrante e lo butti non me ne frega niente di sapere perché non ti piaceva quell’idrante. La collaborazione tra Renzi e Civati era stata il primo salto di qualità con delle chances in anni di tentativi di sparigliamento sempre deboli e molto personalistici, anche quando le persone erano brave persone: per la prima volta un’unione faceva la forza di un progetto non legato a una persona sola. Buttare via quella cosa lì è stato molto sventato ed egoista, da parte di entrambi: era la priorità, perché metteva insieme due visioni, due storie, due elettorati, complementari e compatibili con i minimi sacrifici che si richiedono a chi abbia in testa il bene comune e una visione matura e lungimirante.

C’è un altro elemento a cui ho pensato ieri che aggrava la sventatezza di quella separazione. Nè politico né sentimentale ma più concretamente strategico, di comunicazione. Questo è un paese (e questi sono tempi) in cui l’esposizione personale ha un effetto negativo imbattibile sull’esposto. Se Gesù Cristo andasse in tv stasera domani avrebbe contro le prime pagine di Libero, del Fatto e del Giornale, e commenti diffidenti di altri due o tre quotidiani maggiori. Lo difenderebbe il Foglio, ma per attaccare un paio di editorialisti di Repubblica che lo avevano criticato. La gente nei bar commenterebbe che è stato un po’ saccente. Altri alluderebbero alle sue ambizioni e a chi c’è dietro. Diversi politici contesterebbero al deriva qualunquista dei suoi interventi. E tempo pochi giorni per ognuno che ne abbia apprezzato la predicazione ce ne sarebbero tre che non lo sopportano: spontaneamente, sinceramente, quel che è peggio. Siamo insicuri, frustrati e competitivi col prossimo: poi perdiamo le competizioni, ce ne rendiamo conto, e diventiamo più insicuri e frustrati e competitivi col prossimo.

Non nego che Renzi abbia fatto del suo con una certa insistenza per guadagnarsi inimicizie e fastidi – per quanto spesso infantili – e che il paragone biblico si esaurisca rapidamente. Ma di certo per chiunque abbia una cospicua visibilità in Italia l’ostacolo maggiore all’aumento dei consensi è proprio quella visibilità e le sue implicazioni, che da un certo punto in poi si ritorcono in malevolenza. Chiedete a Roberto Saviano, che su queste cose ha fatto esperte riflessioni.
E invece, Renzi e Civati si erano trovati, per buona intuizione e accidenti della vita, ad avere in mano l’arma più rara per attenuare questo rischio: essere due, non uno. Essere una cosa, non una persona. E una cosa fatta di molte cose diverse e anche lontane, ma complementari. Mostrarsi disposti a condividere, invece che ad accentrare. Presentarsi come una vera idea nuova, non solo come una persona nuova, che ormai non basterebbe neanche arrivasse Gesù Cristo.

Era una buona idea, o un buon accidente: le cose le cambiano anche gli accidenti, come si sa. E se la sono giocata male. Il resto l’ho già scritto.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).