Che le cose ci portino altrove

Non ho visto “Romanzo di una strage”: tendo a credere alle molte versioni che dicono che sia un buon film, ben fatto, con ricostruzioni eccellenti e tendo a credere alle molte versioni che dicono che contenga delle interpretazioni fuorvianti e delle tesi assurde e scriteriate. Sono in generale molto d’accordo con quanto scrive oggi Ezio Mauro: se fai un film su Maria Antonietta puoi anche inventarti ipotesi creative e palesemente artistiche, se lo fai su una storia che ha ancora dei pezzi da sancire definitivamente e che ha difficoltà a far attecchire quelli sanciti, in un paese in cui queste difficoltà e tensioni ancora muovono un sacco di cose, non te lo puoi permettere. Fareste un film sulla scuola Diaz in cui immaginate che a picchiare i ragazzi siano stati dei vicini di casa genovesi indispettiti dal rumore? O che i poliziotti violenti fossero stati chiamati da Luca Casarini? Dicendo poi che il cinema è arte e non deve fare i conti con la realtà dei fatti?

Ma nell’espressione “ferita aperta” usata da Mauro non mi interessa solo la parola “aperta”, ovvero che la questione sia ancora così sensibile. Mi interessa anche la parola “ferita”, ovvero che la questione sia ancora così importante. C’è una cosa che mi pare nessuno sottolinei – un po’ Giuliano Ferrara, a suo modo – e che davvero riguarda i più giovani e occupa credo le loro perplessità: è possibile che oggi i protagonisti della politica, dell’informazione, del dibattito storico e intellettuale siano ancora persone che hanno vissuto quegli scontri o che ne hanno ereditato le contrapposizioni, i meccanismi, e i gravami?

Per quelli che oggi hanno venti o trent’anni è importante sì sapere e capire cose che riguardano il recente passato del loro paese e che ne hanno generato alcune dinamiche attuali, ma sarebbe importante soprattutto superare quelle dinamiche e rimuoverle dall’oggi. Non è normale. Non è normale che le classi dirigenti italiane nel 2012 siano più appassionate e travolte da fossili e ormai intangibili discussioni e accuse e identità che vengono dagli anni Settanta, dai fascismi, dai comunismi, dai partiti della fermezza, dagli opposti estremismi, dalle maggioranze silenziose, eccetera, piuttosto che dalle idee e i fatti della contemporaneità, che ci sono e sono fertili, in altri mondi, in altre generazioni. Non è normale che un film su Piazza Fontana generi cento volte le agitazioni che genera un film sulla scuola Diaz, per rimanere su quest’esempio. Al di là delle mille ovvie differenze, quella che pesa è una: il primo parla delle classi dirigenti italiane, del loro mondo e al loro mondo. Il secondo no.

E il punto a me pare questo: non che piazza Fontana sia così presente nell’oggi dell’Italia, ma che l’Italia sia così passata nello ieri di piazza Fontana.

 


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).