La disonestà di Eugenia Roccella

Eugenia Roccella, nuova ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità, è intervenuta su La Stampa di oggi per replicare a un precedente articolo di Loredana Lipperini in cui la giornalista e scrittrice la invitava ad essere «onesta» sul tema dell’aborto.

Roccella è un’esponente dei movimenti antiabortisti: ha definito la pillola abortiva RU486 «un enorme inganno» e l’aborto come «il lato oscuro della maternità» e una «scorciatoia che non dovrebbe più esserci».

In passato Roccella la pensava diversamente. La sua storia politica era infatti iniziata tra i Radicali e all’interno del Movimento di Liberazione della Donna (MLD). Nel 1975 la nuova ministra curò il libro Aborto: facciamolo da noi a sostegno dell’aborto libero, sicuro e gratuito. Loredana Lipperini ha ritrovato e riletto la prefazione a quel testo di Roccella dove c’è scritto, tra le altre cose, che «a difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe». Lipperini ammette che si possa cambiare idea, nella propria vita, ma chiede a Roccella di essere almeno «onesta» sul tema dell’interruzione di gravidanza.

Roccella ha infatti più volte sostenuto che le femministe, un tempo, non consideravano l’aborto un diritto e il suo intervento pubblicato su La Stampa di oggi si intitola, di nuovo: «Ho imparato dal femminismo che l’aborto non è un diritto». Lipperini ricorda a Roccella che questo non è affatto vero: che non solo le femministe consideravano l’aborto un diritto, o almeno l’accesso all’aborto, ma che lo considerava un diritto anche la stessa Roccella.

In un certo senso dicono entrambe cose storicamente vere, ma Roccella è in malafede. E l’invito di Lipperini è sacrosanto.

Roccella cita Carla Lonzi, una delle iniziatrici del femminismo italiano che ebbe, rispetto ai femminismi che si affermavano nel mondo nella seconda metà degli anni Sessanta, una sua originalità e una sua autonomia: il pensiero della differenza sessuale. Le femministe della differenza, così come Lonzi, sostenevano che l’aborto non fosse un diritto, ma in una direzione diametralmente opposta a quella della nuova ministra e non certo per difendere posizioni antiabortiste.

Lonzi e il femminismo della differenza avevano affrontato in maniera originale e complesso il tema dell’aborto rifiutando la rivendicazione politica di legalizzazione che allora stavano portando avanti radicali, socialisti e un’altra parte del movimento femminista.

Perché le donne abortiscono, si chiedeva Lonzi? «Perché restano incinte». Ma perché restano incinte? Perché non si sono «espresse sessualmente» e perché si sono conformate «all’atto e al modello sessuale sicuramente prediletti dal maschio patriarcale» anche se questo poteva significare per loro «restare incinte e quindi dover ricorrere a una interruzione della gravidanza».

Per Lonzi le donne sono costrette all’aborto perché è stato loro imposto un modello di sessualità centrato sul piacere vaginale e basato unicamente sul piacere maschile. Un piacere che conduce alla procreazione: «Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subìto. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà».

In questo sistema sia il concepimento che l’aborto, negato o concesso, appaiono gestiti dall’uomo. Diceva Lonzi: «Sotto questa luce la legalizzazione dell’aborto chiesta al maschio ha un aspetto sinistro poiché la legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile». L’aborto, insomma, non è la soluzione per una donna libera, ma «per la donna colonizzata dal sistema patriarcale». La via d’uscita, per Lonzi, partiva dalla sfera della sessualità, da un ripensamento e da una ri-contrattazione del rapporto sessuale in cui piacere e procreazione non fossero più identificati.

Dire che l’aborto non era un diritto significava dunque dire che era molto più che un diritto. Come ha spiegato la filosofa della differenza Ida Dominijanni significava dire che «è un potere inalienabile del materno, è una libertà insindacabile di ogni donna, è un’esperienza insondabile dall’esterno, è spesso la conseguenza di una sessualità maschile aggressiva e inconsapevole. Voleva anche dire, e vuole dire, che le donne continueranno ad abortire anche se l’aborto smettesse di essere consentito e legale».

Il lavoro politico del femminismo della differenza (al di là di alcuni esiti che io non condivido) aveva messo al centro prima che l’atto dell’interruzione di gravidanza, la sessualità femminile e maschile, la distinzione tra sessualità e maternità, l’analisi del desiderio se essere madri oppure no, la trasformazione del rapporto con gli uomini, non chiedendo la legalizzazione dell’aborto, bensì la sua depenalizzazione. Roccella dunque torni a parlare per sé, che di riferimenti teorici per sostenere quel che sostiene ne ha parecchi. Ma non sono quelli del femminismo.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.