Perché Oliviero Toscani è stato importante
Oliviero Toscani era un uomo ordinatissimo che si arrabbiava e parlava disordinatamente. Quando andavi a trovarlo a Casale Marittimo ti stupiva il contrasto tra il calore con cui ti accoglieva, rideva, parlava e toccava, e la precisione del paesaggio che lo circondava, della casa che si era costruito (moderna, l’opposto estetico del rustico ristrutturato alla Mulino Bianco o con le pietre a vista) e della stanza in cui si rifugiava a lavorare da solo. Me la ricordo buia e affollata di cose belle e minuscole, fotografie, soprammobili, una collezione di pinocchi, gabbie per uccelli, attrezzi per la ginnastica, un letto singolo, forse un’amaca. Eppure lui, che prima della malattia era ancora grosso e usava il bastone, ci si muoveva con grazia. Tutto a Casale Marittimo – nella tenuta dove viveva insieme a Kirsti, sua moglie, tra uliveti, filari di vite e cavalli pezzati appaloosa, ma senza piscina – ti dava la sensazione che, per trovare l’idea e realizzarla nell’unico modo per lui esatto, avesse bisogno di pulire lo sguardo e lo spazio intorno a sé dai dettagli inutili, per metterlo a fuoco mettendolo in ordine. Che avesse bisogno, cioè, di contorni nitidi. Perfino il cielo e gli ulivi sembravano precisi, quasi ricondotti a ragione, in contrasto con quel suo modo incasinato di ragionare, fare polemica e arrabbiarsi che vedevi in tv.
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La lotta tra la confusione della realtà e delle cose che accadono come vogliono loro, e la precisione con cui devono essere ritratte e raccontate è inscritta nella vita e nella famiglia stessa di Oliviero Toscani. Suo padre Fedele era un grande fotografo. Lavorava per il Corriere della Sera, attraverso le sue agenzie: la Publifoto negli anni Trenta, la Rotofoto nel dopoguerra. Nel 1933 fotografò per primo Wallis Simpson ed Edoardo II d’Inghilterra a Villa d’Este sul Lago di Como, nel 1940 Indro Montanelli seduto per terra con la macchina per scrivere, il 29 aprile 1945 riprese i cadaveri di Mussolini, Petacci e Pavolini in piazzale Loreto, negli anni cinquanta seguì Fausto Coppi e Gino Bartali al Giro d’Italia. Poi, il 30 agosto 1957, portò con sé suo figlio a Predappio per la tumulazione di Mussolini, e Oliviero, che era ancora un ragazzo, si concentrò su Rachele, la vedova. Fu la sua prima fotografia a essere pubblicata.
Dopo essersi diplomato al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, Oliviero disse a suo padre che avrebbe fatto il suo stesso mestiere, e Fedele lo mandò a studiare alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, la scuola di grafica, design e arti applicate basata sui principi della Bauhaus, dove rimase cinque anni e dove, come avrebbe scritto in occasione della mostra del 2022 di Palazzo Reale a Milano, «c’era una grande disciplina per le forme, e soprattutto il concetto di ciò che disegni». La «disciplina delle forme» e la necessità di unire la pratica del lavoro alla sua raffigurazione e comunicazione, l’oggetto all’immagine, era anche alla base del lavoro dello studio Ballo+Ballo che Marirosa, la sorella maggiore di Oliviero che aveva undici anni più di lui ed è morta il 4 febbraio 2023, aveva fondato con il marito Aldo Ballo, e che dagli anni Cinquanta raccontò, fotografandola, la grande stagione del design italiano.
Dall’inizio, cioè, il lavoro di Oliviero Toscani si trovò al crocevia tra cronaca, design e pubblicità. Era ovvio che per metterle insieme avesse bisogno di ordine e contorni nettissimi. Toscani non era un teorico, era un fotografo. Per lui le fotografie potevano raccontare quello che accadeva nel mondo, ma dentro quello che accadeva c’erano tante cose diverse: la scuola di Don Lorenzo Milani a Barbiana, dove andò nel 1963, a 21 anni, le persone che incontravi e quello che gli uomini inventavano e fabbricavano, e che altri uomini compravano e usavano, come gli oggetti di design e i vestiti.
Nella profonda intuizione della continuità tra arte, industria e attualità risiede, credo, l’unicità del lavoro e dello sguardo di Oliviero Toscani, che praticò la fotografia come un’arte applicata in grado di raffigurare la realtà e la pubblicità come veicolo per comunicarla. È inutile ripercorrere qui la sua carriera: il suo lavoro come fotografo di moda negli anni Settanta, la prima campagna «Chi mi ama mi segua» del 1973 per i jeans Jesus, quelle per Valentino e Chanel e i servizi fotografici per Vogue, Elle, GQ, Harper’s Bazaar, Esquire, Stern e Liberation (in questo articolo del Post le cose importanti ci sono). Tutto questo, che per uno normale sarebbe tantissimo, può essere visto come una preparazione a quello che avrebbe fatto a partire dagli anni Ottanta con Benetton, grazie all’intuizione di Elio Fiorucci che li mise in contatto.
È appena il caso qui di ripercorrere alcune delle campagne più rivoluzionarie e controverse: le mani ammanettate in piazza San Babila a Milano durante Mani Pulite, i morti di mafia, il ragazzo palestinese e quello israeliano abbracciati, come il russo e l’americano, e l’angioletto bianco con il diavoletto nero, i tre cuori umani «White, Black, Yellow», il bacio tra il prete e la suora, i preservativi colorati, il malato di AIDS circondato dalla famiglia (l’unica con una foto non sua, ma di Therese Frare, che era già stata pubblicata su Life e aveva vinto il Pulitzer, ma prima di Benetton non era stata vista quasi da nessuno). Ed è inutile dilungarsi sulle lotte tra la Benetton e Toscani perché quelle campagne passassero (ne ha già scritto benissimo, e in prima persona, Paolo Landi su Doppiozero).
Quello che vale la pena di sottolineare è che il fastidio e le polemiche che quelle campagne scatenarono erano dovute al fatto che, per la prima volta e con una forza e precisione mai viste, univano messaggio politico e mercato, attualità e commercio, sfondando il muro sacro che fino ad allora aveva diviso, almeno ideologicamente, cultura e denaro, l’agorà della politica e la piazza del mercato che già Aristotele raccomandava di tenere separate. Oliviero Toscani intuì, cioè, che il vero muro crollato negli anni Ottanta era quello tra sfera pubblica e sfera pubblicitaria, che la storia del costume e quella dei consumi erano così intrecciate che da allora in avanti i messaggi avrebbero dovuto agganciarsi al consumo. È inutile chiedersi se si trattò di un progresso – probabilmente non lo fu – ma quella era la direzione del mondo e valeva la pena provarci. Attraverso Benetton, Oliviero Toscani comprese e praticò prima e più di ogni altro quella trasformazione, sforzandosi di usare il potere della pubblicità nel suscitare desideri per raccontare che il mondo andava male e che forse, un pochino, si sarebbe potuto migliorarlo.
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Purtroppo gran parte della potenza delle campagne per United Colors of Benetton si basava sulla loro unicità. Ho il sospetto che Toscani lo sapesse, o almeno che lo sospettasse: il suo sguardo sull’attualità poteva definire quel marchio, ma non diventare uno stile, una scuola, un metodo replicabile. Se tutti si fossero messi a fare pubblicità imitandolo, la forza di quei messaggi sarebbe diminuita e la possibilità di raccontare il mondo e prendere posizione attraverso la pubblicità si sarebbe normalizzata. Forse fu per trovare un’altra via se Toscani convinse i Benetton a finanziare Fabrica, il centro di ricerca a Catena di Villorba in provincia di Treviso che diresse dal 1994 al 2000 e dove cercò di radunare i migliori artisti e pensatori del suo tempo per allevare i migliori del futuro.
Forse è stato per riprovarci, dopo il fallimento di Fabrica, se nella sua tenuta di Casale Marittimo progettava di fare una scuola, ed era come se l’avesse già davanti agli occhi quando ti mostrava i due edifici da cui si vedeva tutta la tenuta. Li ricordo come due parallelepipedi bianchi piovuti dal cielo sulla cima della collina, con vetrate e stanzoni ordinati e pulitissimi, ma vuoti. Presto, diceva, si sarebbero riempiti di persone. Al piano più basso, sottoterra, aveva sistemato l’archivio dove aveva cominciato a riordinare i lavori di tutta la sua vita, le campagne pubblicitarie e le persone che aveva incontrato e fotografato: i famosi – Andy Warhol, Man Ray, Elvis Presley, Patti Smith, Bernardo Bertolucci, Peter Sellers, Mohammed Ali – come gli sconosciuti.
Era un individualista anarchico (ordinatissimo), ma molto spesso la sua comunicazione si basava sulla categorizzazione binaria bianco/nero. Come se solo la semplificazione e la chiarezza dei confini potesse avere ragione dell’inesauribile varietà delle cose e delle persone. Per lui, come ha detto parlando di Razza Umana, uno dei suoi ultimi progetti, ogni persona era un’opera d’arte e l’umanità sempre individuale. Sulle pareti esterne della sua scuola futura, tra un edificio e l’altro, aveva fatto appendere alcune sue fotografie. A vederle così da vicino, gigantesche, ti accorgevi davvero di quanto fossero nitide e quanto precisi i loro contorni. Una era quella, violenta e selvaggia, di due cavalli che si accoppiano, nero su bianco, così distinti che sembrava non potessero mischiarsi mai. Per fortuna sulla via verso casa, passando in auto vicino al maneggio, Oliviero Toscani ci indicò ridendo i suoi appaloosa, che erano tutti pezzati.

Luciano Benetton e Oliviero Toscani (DANILO SCHIAVELLA/ANSA)
P.S. Riguardandola adesso, quella foto, mi accorgo che il manto del maschio è marrone, non nero, e che quello della femmina non è bianco, ma tempestato di piccole macchie. E mi piace pensare che per Oliviero Toscani la realtà, anche quella binaria e semplificata della comunicazione, è sempre plurale.
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