Le borse e l’economia reale

«Piazza Affari in sofferenza», «Borsa sotto tiro», «Piazza Affari in caduta libera», «Milano maglia nera», «Tonfo di Piazza Affari», «Borsa a picco», «Borsa in affanno», «Un’altra giornata di passione a Piazza Affari»…

Si sono sprecati nei giorni scorsi i titoloni sulla debacle della Borsa di Milano.

Che, accompagnati alle facce corrucciate di alcuni tele giornalisti che ne davano notizia e di quei commentatori che poco capiscono di economia ma chissà perché vengono sempre invitati in tv a inscenare una recita, possono aver indotto qualcuno a credere che davvero le sorti di Piazza Affari coincidano con quelle dell’economia reale.

Non è così. In larga parte non è così. E poiché la crisi economica che stiamo attraversando è drammatica e la corsa all’incremento del debito pubblico incontrollata e a dir poco funesta, forse può essere utile spendere qualche parola almeno per provare a confutare qualche luogo comune di troppo. Come ammoniva infatti il Nobel per l’economia Paul Krugman qualche mese fa: «Stiamo assistendo all’inettitudine a riflettere con chiarezza sull’economia. La natura non convenzionale dell’attuale situazione mette in luce come molte persone non facciano affidamento su un modello di funzionamento dell’economia, ma su quelli che Paul Samuelson amava definire shibboleth: luoghi comuni, frasi fatte, utilizzati come surrogati di ragionamenti».

Veniamo quindi a Piazza  Affari, presa qui in considerazione soprattutto come mercato in cui vengono scambiati titoli azionari di società quotate e dal cui andamento dipendono i titoloni “sparati” di cui sopra (in Borsa i sistemi di contrattazione sono diversi e interessano più mercati, compreso quello dei titoli pubblici).

Qualche dato: il numero di società quotate è decisamente esiguo, meno di 300 e questa soglia non è mai stata superata negli ultimi 10 anni, mentre il peso della loro capitalizzazione rispetto al Pil è passato dal 47% del 2001 al 27% del 2010; oltre il 90% degli scambi si concentra su appena 40 società che rappresentano più dell’80% della capitalizzazione totale; in Borsa appena il 25% delle società risulta contendibile, come ricordava Alessandra Puato il 4 luglio scorso su Corriere Economia in un articolo significativamente intitolato “Quell’insostenibile leggerezza di Piazza Affari”, e pesano solo il 20,7% sull’intera capitalizzazione di Borsa. Il resto del listino è blindato in vario modo, tramite controllate di diritto, di fatto e da patti parasociali; da una recente indagine dell’ufficio studi di Mediobanca su oltre 4000 imprese di medie dimensioni, crem della crem dell’industria italiana,  con un fatturato compreso tra i 15 e i 320 milioni di euro e un organico di 50-499 dipendenti, meno di 20 sono quotate.

Scriveva Antonella Olivieri l’8 maggio scorso sul Sole 24 Ore nel dar conto dello studio: «Solo un quarto ha i conti in rosso, quelle che guadagnano in proporzione più delle grandi hanno un tasso di fallimento limitato a 2 su mille, riescono a sfondare all’estero e si autofinanziano gli investimenti. E non basta: oltre la metà (il 53,7%) è investment grade, con un rating superiore a BBB-, mentre solo l’8% ha voti inferiori a B+. In altre parole, le medie imprese avrebbero le caratteristiche giuste per andare in Borsa e per piacere alla Borsa ma, almeno in Italia, non succede né l’uno né l’altro».

E, visto che abbiamo menzionato Il Sole 24 Ore, ecco un breve stralcio di quanto affermava il 4 dicembre 2007 l’ex commissario Consob Salvatore Bragantini a proposito della quotazione in Borsa del quotidiano di Confindustria, in una lettera all’allora direttore Ferruccio De Bortoli: «Il punto chiave attiene alla proprietà del gruppo…Confindustria non solo detiene, tramite il presidente il 100% del capitale e, domani, un solido controllo di diritto, ma nominerà 14 amministratori su 15 (a proposito, era proprio impossibile fare di più?), i quali scelgono direttori e management. A questo punto, l’affermazione che non è Confindustria a fare tali nomine suscita ilarità. Un conto è dire che un giornale serio non è l’house organ degli azionisti, cosa fin ovvia. Altro è negare i diritti di proprietà, e ciò nel momento in cui essi vengono così inesorabilmente esercitati… Da Confindustria che vuol apparire sempre in prima fila nelle lotte per la libertà dei mercati, ci si aspettava, in casa propria, molto più coraggio».

Insomma non è la Borsa (almeno finora) il luogo ideale per le imprese italiane per crescere. E, visto che sul tema della crescita Il Sole 24 ore di recente ha lanciato un manifesto in nove punti colpisce che alla Borsa e a come renderla più appetibile per le imprese non vi sia dedicato alcun cenno.

Colpisce, tuttavia, fino a  un certo punto. Già perché la tanto evocata crescita, se non viene puntualmente declinata, può finire con il rivelarsi l’ennesima parola d’ordine di cui, periodicamente, capita che si “innamorino” dalle parti di Confindustria e poi ripetono di continuo: con D’Amato, “competitività”; con Montezemolo, “fare squadra”; con la Marcegaglia “crescita”, appunto.

Eloquente è l’accenno che ne faceva ieri Eugenio Scalfari nel suo consueto “sermone” domenicale, per evincere come a entrare in dettaglio l’espressione crescita possa dire tutto e il contrario di tutto e implicare “ricette” tra le più disparate: «Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti, abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese, spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi…», eccetera, eccetera.

Per questo il documento presentato dalle cosiddette parti sociali al Governo il 4 agosto è poco più che un mero elenco di enunciazioni di principio con cui non si va da nessuna parte. Basta infatti entrare un po’ più nel merito e mille contraddizioni sono pronte ad esplodere.

Post Scriptum 1: Tra le numerosissime sigle rappresentanti le parti sociali che hanno incontrato il Governo nei giorni scorsi non s’è vista quella dell’organismo di rappresentanza “per definizione” del settore nonprofit, il Forum del Terzo settore che, almeno sulla carta, ne avrebbe di cose da dire su come migliorare il welfare e promuovere la coesione sociale che il nostro caro presidente della Repubblica non si stanca mai di invocare. È un bene, perché come è stato efficacemente sottolineato, più che parti sociali sembravano “particelle sociali”. Ma non è questo il punto. È che, verosimilmente, la voce del settore nonprofit interessa a ben pochi. Né il terzo settore è capace di farla sentire nei modi di volta in volta più opportuni. A patto, naturalmente, di avere qualcosa da dire che non sia la solita retorica del buonismo.

Post Scriptum 2: In realtà, tra le parti sociali che si sono sedute al tavolo con il Governo per chiedere “discontinuità”, alcune sigle che richiamassero in qualche modo il settore nonprofit c’erano. Mi riferisco, per esempio, a Confcooperative al cui vertice siede dal 1991 lo stesso presidente, Luigi Marino che, a commento dei nove punti del citato manifesto del Sole 24 ore, tra le altre cose, ha dichiarato al quotidiano (il 19 luglio) che bisogna «dare corso alla stagione dei doveri, dopo quella dei diritti». Chissà se tra questi doveri rientra anche quello, dopo vent’anni, di passare il testimone, così tanto per dare un esempio di discontinuità.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com