Renzi, basta

C’è una cosa che Matteo Renzi ripete spesso, ormai da quel famoso 4 dicembre del 2016: che lui, al contrario di quello che fanno molti in Italia, dopo aver perso si è dimesso. Due volte, addirittura: prima da presidente del Consiglio dopo la sconfitta al referendum costituzionale, poi da segretario del PD dopo la sconfitta alle elezioni politiche. Le dimissioni, però, non sono semplicemente un atto burocratico. Quello a cui larga parte della classe dirigente italiana è allergica non è la firma di un foglio di carta, ma la decisione consapevole e volontaria, operata senza alcuna costrizione, di rinunciare a visibilità e soprattutto poteri residui e rendite di posizione in nome di un’assunzione di responsabilità.

Credo si possa pacificamente concordare che Matteo Renzi questa seconda cosa non l’abbia mai fatta. Non si è dimesso dopo il 4 dicembre e non si è dimesso dopo il 4 marzo: anzi, dal momento successivo a entrambe le sconfitte ha vistosamente e pervicacemente tentato di riguadagnare quello a cui aveva appena rinunciato, riuscendoci solo parzialmente e alla fine ottenendo – come ampiamente prevedibile – un lento logoramento che lo ha reso a moltissimi insopportabile umanamente prima ancora che politicamente, compresi tanti che per molto tempo lo avevano sostenuto, difeso e investito della propria stima e fiducia. Allo stesso modo, credo si possa pacificamente concordare anche che l’attivismo politico e mediatico seguito alle elezioni politiche – l’intervista in prima serata prima della direzione del PD sull’eventuale alleanza col Movimento 5 Stelle, i post con cui si è preso il merito del fallimento di quella discussione, ora l’annuncio di oggi per cui aprirà la prossima assemblea del PD per “spiegare” le ragioni della sconfitta e “da dove ripartire” – esulano e molto dal suo attuale mandato di “senatore di Scandicci”, che ama ricordare per descrivere un passo indietro che in realtà non è mai avvenuto.

E non vale difendersi dietro argomenti deboli come “chi può impedirgli di dire quello che pensa” o “è comunque l’unico leader lì in mezzo”: le dimissioni come assunzione di responsabilità e rinuncia volontaria a esercitare il proprio potere residuo sono esattamente la rinuncia all’utilizzo di questi argomenti. Barack Obama non mette bocca ogni giorno nella vita politica interna del Partito Democratico, Tony Blair non lo fa con il Partito Laburista, eccetera: e non è che se volessero non avrebbero visibilità, credibilità, estimatori, retroscenisti che pendono dalle loro labbra, numeri di telefono e strumenti per farsi sentire. Insistere in questo continuo brigare – ormai peraltro decifrato dall’opinione pubblica in modo trasparente e impietoso – porta dritto dritto in un posto e in uno soltanto: alla trasformazione di Matteo Renzi in Massimo D’Alema.

Tutto questo è un problema per Renzi e la sua credibilità personale, naturalmente, ma sarebbero affari suoi se non fosse un grosso problema anche per tutti noi. Le idee di Renzi sul Partito Democratico hanno una storia importante che non nasce con lui – il discorso del Lingotto, per fare un esempio – e mai come nei prossimi anni l’Italia avrà bisogno di una voce forte e credibile che rappresenti l’europeismo, il liberalismo, il garantismo, la difesa dei diritti civili. La pretesa di Renzi di continuare a occupare la scena come difensore di questi valori, in ultima istanza nuoce proprio a questi valori. Se non vuole farlo per lui, lo faccia per noi.

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).