Io e Rudi Garcia

Un anno fa sono entrato in ascensore con Rudi Garcia. Lui era a Milano per farsi intervistare alle Invasioni Barbariche, io mi ero imbucato grazie al peraltro direttore del Post facendo una cosa da tredicenne fan degli One Direction. Sono arrivato agli studi e sembrava che lui fosse lì ad aspettare me (di nuovo la sindrome One Direction), ha stretto la mano ai presenti me compreso, poi siamo entrati nell’ascensore che porta dallo studio ai camerini, abbiamo scambiato qualche battuta da ascensore (io a monosillabi, di nuovo One Direction) e poi ci siamo separati. Lui si è preparato, poi è andato a farsi intervistare da Daria Bignardi, poi è tornato nei camerini e lì ci siamo fatti una fotografia in cui io sorrido come una tredicenne fan degli One Direction davanti a uno degli One Direction.

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Rudi Garcia è l’allenatore della Roma dal giugno del 2013. I primi 15 mesi sono stati una cosa così bella e perfetta che se la vedessimo sceneggiata in una serie tv ci farebbe venire la nausea. È arrivato da quarto allenatore in tre anni della nuova proprietà statunitense della Roma e dopo la storica e bruciante sconfitta nel derby in finale di Coppa Italia. Francese con cognome spagnolo, nessuno sapeva nemmeno come pronunciare il suo nome, Garcia o Garcià? Uno scudetto vinto in Francia col Lille, un video bizzarro in cui canta El Porompompero. Durante il ritiro estivo porta i giocatori a fare rafting e dà del laziale ai tifosi che insultano la squadra per il disastro della stagione precedente. Poi comincia il campionato e la Roma vince, e vince, e vince, e vince: dieci vittorie nelle prime dieci giornate nessuno le aveva mai viste in Serie A.

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Il 22 settembre del 2013 c’è il primo derby dopo quel derby. La Roma gioca bene ma non segna. Poi nel secondo tempo Totti mette dentro l’area di rigore un pallone che viene calciato da Federico Balzaretti, terzino sinistro umile e sgobbone, di buon carattere, masticato e intristito dalle critiche nella stagione precedente: e colpisce il palo. Arrivare a un passo dal più meraviglioso dei finali felici e fallire è un classico della storia della Roma, sublimato dall’unica finale di Coppa dei Campioni giocata nella storia della società, dopo una formidabile rimonta in semifinale, e persa ai rigori, proprio a Roma. Quindi Balzaretti colpisce il palo ed è giusto, non poteva che andare così: siamo la Roma. Ma lui è disperato, e così i tifosi, perché l’abitudine al fallimento a pochi passi dal lieto fine non prepara, non ispessisce, non allevia mai la delusione, anzi. Era ovvio, pensa il tifoso della Roma, eccallà. Ma lo fa per prendersi in giro, per irridersi: come hai fatto a pensare che sarebbe potuta andare diversamente? Ci caschi proprio tutte le volte. Quelle cose a noi non succedono.

Business as usual, insomma: l’ennesima cosa quasi eccezionale successa a una squadra che, per fare un altro esempio, negli ultimi 15 anni in Serie A è arrivata seconda per 7 volte. Se non fosse che a quella Roma di Garcia succedevano cose mai viste. Per esempio succedeva che pochi secondi dopo quel palo, a Balzaretti capitasse una di quelle cose che nella vita capitano molto raramente: quando ti accorgi di aver sbagliato qualcosa, non è comune avere l’opportunità di rimediare subito e cancellare l’errore. A Balzaretti è capitata questa lussuosa possibilità, ma non nell’arco di una carriera o di una stagione, nemmeno nell’arco di una partita: è capitata meno di 10 secondi dopo aver colpito il palo, mentre ancora si disperava. Quando Totti gli passa di nuovo il pallone lui è girato di spalle, sta ancora pensando al palo di prima, ma si gira appena in tempo ed è tardi per guardarsi intorno, per decidere cosa fare: con un riflesso fa la cosa più difficile, tira al volo, e segna il gol che lo ha fatto piangere per i minuti restanti della partita e che lo ha riscattato.

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L’anno scorso alla Roma sono successe cose non da Roma. Un altro esempio: è arrivato Kevin Strootman. Uno così forte che quelli di Kansas City 1927 per dare l’idea l’hanno messa così: è uno che evidentemente ha preso l’aereo sbagliato. Doveva atterrare a Madrid, a Monaco o a Barcellona e invece è atterrato a Fiumicino, e infatti è un alieno per la Roma e forse anche per la Serie A. L’abbiamo imbrogliato e ora sta qui. Cosa fa fare l’amore unito al tempo da perdere: cose come questo video, 43 minuti di azioni di Strootman nei soli sei mesi che ha giocato con la Roma.

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Certo, qualcosa della vecchia Roma è rimasto. La Roma di Rudi Garcia ha fatto quell’anno così tanti punti come nessun’altra Roma prima di allora, eppure non ha vinto lo Scudetto: li ha fatti nell’anno in cui la Juventus ha fatto così tanti punti come nessun’altra squadra prima di allora. Un classico. Ah, e Strootman, perché ha giocato con la Roma solo sei mesi? Perché un anno fa si è rotto il ginocchio; poi è tornato a giocare, alla fine del 2014, e se l’è rotto di nuovo. E Federico Balzaretti, l’eroe di quel derby, non gioca da gennaio del 2014 per un problema alla schiena che forse non lo farà giocare a calcio mai più. E Leandro Castan, un altro pilastro di quella squadra, ha scoperto a settembre di avere un angioma cavernoso al cervello: è stato operato, non si sa ancora bene quando tornerà e come starà. E Maicon ha un ginocchio sbriciolato, per ogni partita che gioca deve saltarne tre. Eccetera.

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Lo so, l’orgoglio della sfiga è la più classica profezia auto-avverante: produce insicurezza, produce alibi e alla fine della fiera produce delusioni e sconfitte, confeziona giustificazioni perfette ancor prima di iniziare a giocare, così da sapere che anche dovessimo perdere in fondo non sarebbe esclusivamente colpa nostra. Genera un contesto per cui le grandi vittorie sono sempre “imprese” e le grandi sconfitte sono sempre frutto della sfiga, dei complotti o del destino. Lo so. Anche per questo la Roma di Rudi Garcia era uno spettacolo eccezionale: perché era diventata altro da sé pur rimanendo la Roma, il posto giusto per uno che aveva sbagliato aereo, il posto in cui Balzaretti si ribella a quella storia del destino e dopo aver preso il palo insiste e fa gol. Avevo la sensazione che cambiando la Roma lui stesse cambiando anche i suoi tifosi, o almeno che stesse cambiando me.

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Quella squadra non c’è più. Quando è scomparsa di preciso, è difficile dirlo: forse quando si è fatto male Strootman, forse quando si è fatto male Castan, forse quando Totti, De Rossi e Maicon sono invecchiati di un anno, forse quando un genio del calcio come Pep Guardiola ha mostrato al mondo come quella squadra si poteva affrontare e battere, e gli altri non hanno dovuto fare altro che provare a imitarlo. Io ho pensato a lungo che fosse un problema contingente – gli infortuni, la sfortuna, la Coppa d’Africa, la fatica del ritorno in Champions League, le cavallette – ma poi qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo del 2013 sulla precedente squadra di Rudi Garcia, il Lille. Mi ha fatto impressione perché la descrizione dei difetti dell’ultimo Lille di Garcia sembra scritta oggi riguardo la Roma, con un’esattezza spietata.

Garcia a volte sembra non avere un piano B. In troppe occasioni quando gli avversari hanno trovato un modo per fermare il gioco del Lille, il suo bellissimo calcio fluido è scomparso. […] Nell’ultima stagione di solito bastava guardare i primi 20 minuti di una partita per capire se il Lille avrebbe segnato su azione o no. Poi a volte un calcio piazzato o un errore delle difese avversarie hanno risolto la situazione, ma la svolta non è arrivata mai per i cambi tattici di Garcia. Raramente le sue sostituzioni cambiano la partita: molto spesso i giocatori vengono sostituiti con altri dello stesso ruolo, senza toccare lo schieramento e la tattica. […] La sua ultima stagione al Lille è stata segnata anche dall’insistenza su calciatori esperti anche se meno bravi di altri più giovani e inesperti. […] Non c’è dubbio che Garcia porterà alla Roma uno stile di gioco offensivo. Quando funzionerà, sarà bellissimo da vedere: i tifosi della Roma saranno abbagliati dalla rapidità dei passaggi e dai movimenti intelligenti che Garcia sa costruire. Il problema arriverà quando gli avversari impareranno a conoscere quel gioco e fermarlo.

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Improvvisamente si lega tutto di nuovo. La crisi della Roma non è un caso, una situazione contingente, non c’entrano la sfiga, gli infortuni, i mille alibi trovati e citati negli ultimi mesi. Il guaio non passerà da solo, se passerà. E quindi ho ripensato a quella mia foto con Rudi Garcia, in questi giorni: perché quell’ammirazione – e la conseguente sensazione di imbarazzante e un po’ ridicola euforia in ascensore – non veniva da un derby vinto (ne abbiamo vinti tanti) né da un secondo posto in Serie A (ne abbiamo avuti tanti) ma dall’eccezionalità letteraria di quella trasformazione. La Roma era ancora la Roma, ma era un’altra. Questo è in qualche modo anche il fascino di questa spiacevole situazione: che l’unico modo per uscirne è che Rudi Garcia riesca adesso a fare lo stesso lavoro su di sé. Che salga uno scalino, si trasformi e dimostri di aver sbagliato aereo anche lui.

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Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).