Cos’è una squadra di calcio nel 2014?

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La settimana scorsa sono stato a Trigoria, che per me è più o meno l’equivalente adulto di “sono stato al Luna Park”. Per i profani: Trigoria è letteralmente una zona dell’estrema periferia di Roma, fuori dal raccordo anulare, ma in realtà è una specie di sineddoche, perché “Trigoria” per tutti è il centro sportivo Fulvio Bernardini, cioè quei 20 ettari che ospitano la sede della Roma. Sono stato a Trigoria perché la Roma ha presentato ai suoi sponsor e a un pugno di giornalisti il suo nuovo media center e i palinsesti della sua radio e della sua tv (la Roma è l’unica squadra italiana ad avere sia una radio che una tv ufficiale). Il media center è effettivamente notevole – Guido Fienga, che è il responsabile dell’intera area, dice che così non ce l’ha «neanche il Manchester» – e mi ha colpito aver sentito citare questa frase, attribuita al presidente e proprietario della Roma, James Pallotta: «Bisogna abituarsi a pensare a una squadra di calcio come a una multimedia company tematica».

«Every company is a media company» è da anni uno dei motti più diffusi e citati quando si parla di internet e informazione online, oggetto di centinaia di convegni, panel e tavole rotonde in decine di festival di questo e di quello. La disintermediazione, l’uso dei social network da parte dei brand, i mercati sono conversazioni, eccetera. Se per lavoro o per interesse frequentate questi ambienti, avete capito di cosa si parla. Sentire questa frase riferita a una squadra di calcio mi è sembrato allo stesso tempo notevole e scontato. Scontato perché se oggi «every company is a media company» allora anche una squadra di calcio è una «media company», non è una grande scoperta; notevole perché la Roma – per via delle inclinazioni naturali della sua proprietà americana, innanzitutto – sta dimostrando concretamente di prendere questa definizione molto sul serio, investendo molti soldi, assumendo molte persone. Quelli della Roma mi hanno spiegato che l’obiettivo a lungo termine è sviluppare dal settore media una nuova linea di ricavi. Fare soldi, insomma – cosa che già in questo momento è una specie di sogno proibito anche per le media company che sono quello e basta – allo scopo di finanziare le altre attività della società e in un ultima istanza la squadra.

Ho pensato due cose.

La prima è che costruire una media company pura profittevole, per quando difficile, è una specie di scienza; ma farlo per una squadra di calcio scompiglia tutto. Se sei una media company e investi abbastanza soldi, assumi le persone migliori in circolazione, dai loro tempo e strumenti, prendi le decisioni con attenzione, competenza e coraggio, se lavori al meglio possibile, se non fai errori clamorosi nell’analisi del mercato, i ricavi a un certo punto arrivano. Sono molti se, è vero; e ci sono eccezioni, certo; ma ci siamo capiti. Più o meno lo stesso – ho detto “più o meno” – vale se sei una fabbrica di caffè o di automobili. Studia il mercato, decidi di conseguenza, investi dove serve. Ma il settore media di una squadra di calcio è legato indissolubilmente ai risultati sportivi di quella squadra, e quella non è una scienza esatta. Il calciatore giovane e promettente si rivelerà pronto anche dal punto di vista caratteriale? L’attaccante correndo poggerà il piede proprio su quella zolla di prato malmessa che gli storcerà la caviglia o cinque centimetri più in là? Il calcio di rigore decisivo rimbalzerà nella parte interna o in quella esterna del palo? Il difensore più forte si farà male a un ginocchio atterrando dopo una delle centinaia di salti che effettuerà soltanto questo mese? Nel calcio non si vince e non si perde mai per caso, certo, ma non è una scienza esatta. La media company meglio organizzata e più ricca di talento non può fare nulla per incidere in queste variabili, e sono variabili che determinano anche il suo successo. Se «every company is a media company», fare la media company di una squadra di calcio significa associare a un compito già impegnativo una variabile decisiva tutto sommato ingovernabile.

La seconda cosa che ho pensato è: quanto è affascinante tutto questo?

Sul treno che mi ha riportato a Milano c’erano due ragazzini con la loro nonna. Andavano a Milano, probabilmente da altri parenti, e domenica sarebbero andati a San Siro a vedere la partita dell’Italia. Un signore ha attaccato bottone poco prima di scendere dal treno e ha detto quella frase che avete sicuramente sentito dire mille volte. “Il calcio non è più uno sport, girano troppi soldi”. Mi è sembrata un po’ crudele questa espressione di cinismo davanti a due ragazzini entusiasti che stanno per andare a vedere giocare l’Italia a San Siro, ma non è questo il punto. Il punto non è nemmeno che nel calcio sono sempre girati “troppi soldi” e comunque meno che in altri sport considerati più nobili, né che sia clamorosamente falso che esista un legame tra i soldi che girano e gli scandali che in anni recenti hanno riguardato il calcio (ci sono stati scandali analoghi o peggiori nel basket, nell’atletica, negli sport paralimpici, nella pallavolo, eccetera). Così come il punto non è la patologica e decadente diffusione del pensiero nostalgico, la FIAT che si rimette a fare la 127 e le decine di aziende che come dice il mio amico Roberto ormai vendono solo “i bei tempi di una volta”. Il punto è che è un peccato pensarla così nel 2014, perché il calcio non è mai stato così complicato da fare e divertente da vedere.

Il signore del treno probabilmente rimpiange solo la sua gioventù: non può avere nostalgia di quel calcio non fosse altro perché non lo vedeva nemmeno. Non-lo-vedeva. Pensateci. Il calcio di una volta era un calcio in cui le partite non si vedevano. Non è che non vedevi la Liga o l’Indian Super League: non vedevi l’Inter. Quanti hanno visto davvero giocare il Grande Torino, su cui abbiamo speso chilometri e chilometri di pagine? Per non parlare delle squadre straniere, del Real Madrid degli anni Cinquanta o del Bayern Monaco degli anni Settanta. Quello sì che era un calcio elitario, a disposizione di pochi, dei benestanti e dei giornalisti. Salvo poche eccezioni, l’unico modo per vedere giocare la tua squadra era andare allo stadio: e vedevi comunque solo la tua squadra. Pensate a quanto è difficile fare il calcio adesso, se le squadre per avere successo devono diventare – anche! – cose che un tempo avremo chiamato editori. Pensate a che livello di eccellenza devono ambire per esistere e lavorare grande quanto il pianeta Terra. Liberatevi per un attimo del romanticismo del pane e salame dentro cui viviamo imbevuti fin dalla nascita, della retorica della povertà che può risultare davvero affascinante solo a chi non l’ha mai sperimentata, e pensate a quello che è il calcio adesso: alla possibilità di vedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento; alla montagna di informazioni, storie e dati disponibili letteralmente dentro il telefonino che portate in tasca; al fascino di poterlo seguire come movimento globale e allo stesso tempo guardare in diretta l’allenamento di rifinitura. Mentre sei seduto sul tram. E sbadigli, magari.

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).