Le intercettazioni non significano niente

Siccome anche le grandi firme sono costrette a razzolare nella merda (scusate, ma ormai abbiamo sdoganato anche quella) abbondano i più vari affreschi voyeristici che riportano meramente tutte le intercettazioni possibili, anche le più inutili e inconferenti: e però lo fanno con la postura dell’analisi para-sociologica, dello «spaccato» di un Paese o di un’era politica, tutta una tara pretenziosa che serve a giustificare un contenuto netto che è puro guardonismo.

Basta atteggiarsi a sensori di un’epoca o a viaggiatori salgariani (è sufficiente leggere dei brogliacci via internet, del resto) ed ecco che il grande corsivista o analista o elzevirista può tranquillamente continuare a rovistare nella merda, perché i tempi sono quelli che sono e la magistratura è il nostro vero editore, ormai. Ecco allora che abbondano le citazioni letterarie, le metafore, i riferimenti alla commedia all’italiana, non c’è scambio telefonico che non riassuma «il grande dramma dell’Italia» e altre sciocchezze finto-distaccate: ma l’odore rimane. Oltretutto non è vero, le intercettazioni non riassumono niente, non sono uno spaccato di niente, una metafora di niente, è tutta una scusa, una balla. Gli squarci parziali aperti da colloqui parziali sono scampoli parziali di realtà parziali, schegge di nicchie più o meno miserande del potere, frammenti di realtà spesso private e spesso banali che diventano ancora più banali per come noi giornalisti cerchiamo appunto di banalizzarle, cioè di piallarle alle nostre esigenze di bottega, renderle archetipiche e «sociologiche» perché ci vergogniamo di come abbiamo ridotto il nostro mestiere. Noi non siamo gossipari, siamo giornalisti. Eh già.

Non scrivo da un eremo, e conosco quanto basta gli anfratti di quella politica e di quel potere che ora si vorrebbe trasformare ne «il grande dramma dell’Italia»: dunque credo di poter dire, semplicemente, che quella non è l’Italia. Le vite disinvolte e disperate dei Tarantini e dei Lavitola non sono l’Italia. Sarà anche e in minima misura lo specchio del Paese, ma quello reale – quello di tutti i giorni, dalle Alpi a Capo Passero – è un’altra cosa come tutti sappiamo, e come nei giornali è sempre meno descritto: anche perché non sono solo i politici ma anche i giornalisti, ormai, a far parte dello stesso calderone virtuale, della stessa piazza rigorosamente catodica. O telefonica, ormai.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera