Veleno che rimane

È difficile ancorarsi a dati certi, quando in una vicenda che arriva a investire beni supremi come la libertà di informazione si confrontano il modo di Henry John Woodcock di fare il magistrato e il modo di Vittorio Feltri di fare il giornalista. La tentazione più forte sarebbe girarsi dall’altra parte sperando che la buriana passi presto: impossibile scegliere fra il magistrato più esibizionista di tutti (e il meno concreto: in quindici anni un paio di centinaia di indagati tutti prosciolti, in maggioranza potenti e Vip di varia natura) e un direttore già ripetutamente sanzionato per violazioni della deontologia professionale.
Invece è impossibile sottrarsi alla valutazione, per il semplice motivo che ormai qualsiasi cosa il Giornale faccia, o venga fatta contro il Giornale, condiziona pesantemente il clima e addirittura gli eventi nella maggioranza e nel governo. È perfino ovvio che la partita tra Berlusconi e Fini non sarebbe andata come è andata, se i segugi di Feltri e Sallusti non avessero interpretato a modo loro i desideri dell’editore.
L’impressione, ancora di più dopo il caso Marcegaglia, è proprio questa: di un mandato originario al quale Feltri ha adempiuto ferocemente, innescando però poi una reazione a catena che nessuno, neppure Berlusconi, riesce più a controllare. Qualsiasi cosa esca sul Giornale, non può che essere ascritta a una strategia di character assassination. Qualsiasi messaggio mandino i dirigenti del Giornale, non può che far pensare a imminenti linciaggi a mezzo stampa.
Se Nicola Porro, persona normalmente ragionevole, è in buona fede nella sua ricostruzione a proposito degli scambi telefonici con l’assistente della Marcegaglia, non può però chiedersi con finto stupore «Come ha fatto Arpisella a equivocare su uno scherzo?»: lo chieda a Boffo o a Fini, se quando c’è di mezzo il Giornale viene voglia di scherzare.
Le voci si rincorrono, su Berlusconi che vuole liberarsi del quotidiano, su Feltri che vorrebbe fare altrettanto, su cordate e scalate. Scappare, resistere, colpire, salvarsi. Il Giornale è metafora perfetta del centrodestra berlusconiano: un luogo impazzito, in piena sindrome da assedio, che per difendersi spara all’impazzata intorno a sé contro chiunque somigli a un nemico.
Peppe D’Avanzo su Repubblica descrive i media berlusconiani come una flotta da guerra. Ci può stare, a patto di riconoscere due cose: che le navi della flotta si muovono più come torpedini kamikaze che come corazzate inaffondabili; e che nel teatro di battaglia fatto di veleni, gossip, delegittimazioni personali e sovrapposizioni fra indagini giudiziarie e giornalistiche, anche testate come Repubblica e il Fatto si sono mosse senza scrupoli.
L’esito finale è che quando parliamo di libertà di stampa e diritto di cronaca non sappiamo più bene di che cosa parliamo, essendo stati questi sacri concetti usati come schermo per pure e semplici campagne di demolizione dell’avversario.
Domani il Giornale pubblicherà la sua inchiesta sul gruppo Marcegaglia, tenuta nel cassetto per intercessione di Confalonieri. Difficile che contenga novità sconvolgenti. Ma una cosa è sicura: Sallusti la tira fuori per dimostrare di non essere succube di pressioni censorie, e nel farlo spinge ancor di più il proprio giornale nella spirale autodistruttiva. Sarebbero affari solo suoi, se non fosse vera la profezia di Giuliano Ferrara: tutto ciò avrà serie conseguenze culturali e politiche. Veleno nell’aria, nell’acqua e nella carta, che non andrà via neanche quando non ci sarà più l’avvelenatore capo.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.