Una vecchia alla finestra

– Mi hanno chiuso dentro. Aiutatemi.
La vocina è uscita dal nulla. Non c’era nessuno davanti e nessuno di dietro. Il marciapiede era deserto. Ma continuava a chiamare.
– Non riesco a uscire.
Era una voce flebile, esausta, che mi ha ricordato quella della lumachina di Pinocchio.
– Signore, sono qui. Aiuto.
Ho alzato gli occhi: affacciata alla finestra del primo piano c’era una vecchia in vestaglia marrone, stopposa, da povera. In mano aveva un coltello di quelli per pelare le patate, con il manico bianco di plastica. A Milano, grazie a Burian, il vento gelato degli Urali, la temperatura era sotto lo zero, ma la vecchietta se ne stava alla finestra a chiamare i passanti. E il passante ero io. Aveva un’aria dispersa.

– Che cosa succede, signora?
– Non mi fanno uscire.
– Chi non la fa uscire?
– Loro. Mi hanno chiusa dentro. Ho freddo.
– Non ha le chiavi?
– No. Me le portano via.

Parlava a voce bassa, non sembrava impaurita, soltanto sperduta. Ho chiamato la portinaia nell’androne, ma non ha risposto nessuno. Ho provato dal panettiere pugliese pochi metri più avanti.

– Mi scusi, c’è una signora al primo piano che dice di essere stata chiusa in casa.

La panettiera ha reagito con scandalo.

– Certo. Lo sappiamo. È la figlia che la imprigiona, perché quest’estate era uscita e non la trovavano più.
– In che senso la imprigiona, scusi?
– La chiude dentro e si porta via la chiave. La figlia abita fuori Milano. Torna a controllare ogni due tre giorni.
– Ma non si può rinchiudere una persona.
– Gliel’abbiamo detto anche noi, ma ci ha detto di farci i cazzi nostri.  Non posso neanche portarle il pane da mangiare.

Al telefono l’operatore del 118 mi ha chiesto se era un caso di pericolo immediato di vita e ho risposto di no, che sembrava solo una storia di abbandono. Una vicenda incongrua, completamente stonata rispetto al contesto: una strada del centro di Milano dove ogni giorno passano centinaia di persone, piena di bar, kebab, pizzerie e ristoranti toscani e giapponesi che ogni sera si riempiono, oppure chiudono, sostituiti da altri locali; una strada dove probabilmente la vecchia aveva sempre vissuto, sentendosi sempre più anacronistica in un posto che le cambiava intorno, e si rinnovava mentre lei invecchiava, impoveriva e diventava più sola.

L’operatore mi ha assicurato che avrebbero presto mandato qualcuno, così sono tornato sotto la finestra per avvisarla, ma era ritornata all’interno. Alla panettiera ho detto che sarei ripassato più tardi. Tre ore dopo, i soccorritori se ne erano appena andati. Erano arrivati anche i vigili, che avevano chiesto ai vicini, e i pompieri, che erano entrati dalla finestra con una scala, e poi l’avevano portata via in ambulanza all’ospedale. Mi ha raccontato tutto la panettiera.

– La figlia aveva chiuso anche il gas. Si teneva la pensione e non voleva spendere per il riscaldamento. Neanche una coperta, le avevano lasciato.

Da tre settimane, ogni giorno, passo sotto la finestra e alzo lo sguardo. È ancora chiusa. Immagino la stanza in penombra, senza neanche una coperta, con rimasugli di cibo abbandonati sul tavolo e il coltello bianco di plastica sporco nel lavandino. Immagino che la signora sia in qualche ospedale e che la figlia abbia ricevuto una denuncia, forse. Ma ogni volta controllo il contesto – i cocktail bar, la gente che va a lavorare, i giovani redattori della casa editrice di fronte – e non mi capacito che una storia di abbandono e arretratezza come quella di cui sono stato testimone sia avvenuta, come un buco aperto nel tempo, in mezzo alla modernità senza che la modernità se ne accorgesse o occupasse. Di fronte a storie così il primo istinto è pensare che sia proprio la modernità ad accrescere la solitudine e l’abbandono, che in una cascina o in una casa di ringhiera una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere, come non sarebbe potuta accadere la vicenda del povero cristo di Venezia morto da sette anni in casa senza che nessuno andasse a cercarlo.

Poi proseguo, e ogni volta mi viene in mente un articolo di Our World in Data, un progetto  collegato all’Università di Oxford. Si intitola The short history of global living conditions and why it matters that we know it (Breve storia delle condizioni di vita globali e perché importa che lo sappiamo). Dimostra che nonostante i lamenti e i luoghi comuni, la nostalgia reazionaria di un passato ideale, il rimpianto delle cascine e delle case di ringhiera, il progresso esiste e continua a succedere, e che sono molte di più le cose che abbiamo guadagnato di quelle che abbiamo perduto.

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Negli ultimi due secoli le condizioni di vita degli esseri umani sono migliorate a un ritmo miracoloso: nel 1820 il 94,6 per cento dell’umanità viveva in condizioni di estrema povertà, nel 2015 soltanto il 9,6 è davvero povero; nel 1800 il 43,3 per cento dei bambini moriva prima di compiere 5 anni, nel 2015 solo il 4,3; nel 1970 852 milioni di persone non avevano alcun tipo di istruzione e il 44 per cento della popolazione mondiale era analfabeta, nel 2015 nonostante la popolazione sia più che raddoppiata gli analfabeti sono dieci volte di meno –  82 milioni – e chi non sa leggere e scrivere si è ridotto al 14,7.

Persone che vivono in condizioni di estrema povertà

Bambini che muoiono prima di compiere 5 anni

Persone senza alcun tipo di istruzione

Tasso di analfabetismo

Questi dati dimostrano che tutto questo è successo e continua a succedere, e chi dice che una volta il mondo era più giusto e più umano dice idiozie. Ma dicono anche che il male non progredisce, resta fermo. Che il progresso non riguarda tutti gli umani, perché non riguarda tutto l’umano: brandelli dell’epoca in cui viviamo rimangono impigliati in un altro tempo, non cambiano, restano attaccati al passato. Dentro le nostre città, proprio sopra il sushi, le pizzerie biologiche e i cocktail bar sopravvivono persone che vivono in condizioni preistoriche, abbandonati da tutti, perfino dai figli, perché non sono più utili a nessuno. Interi pezzi di noi, di noi stessi, non vengono toccati dalla storia, tantomeno dal progresso, e rimangono identici in eterno, abbarbicati a istinti, paure, brutalità primordiali. Non è questione di buoni e cattivi. Riguarda chiunque. Il male, forse, è proprio questa incapacità di cambiare ed evolversi: è l’impossibilità di migliorare, è la forza di resistere al tempo, sottrarsi alla storia. Non sono soltanto ignoranza e povertà a favorire l’abbandono, anche se aiutano. E non è soltanto la modernità ad accrescere la solitudine, per quanto la modernità ci renda più visibili ma meno presenti l’uno con l’altro, è proprio l’umano in quanto tale a essere cavo, ad avere in sé un nucleo immutabile e preistorico che, per sopravvivere, ci tiene sul fondo, impauriti e cattivi. Vale per i rapporti familiari e vale per la politica: nessun progresso è dato per sempre, anche se lentamente il mondo migliora. La storia torna indietro, zigzaga, si perde dei pezzi, abbandona vecchiette e insieme costruisce gli strumenti per soccorrerle.

Sono passate tre settimane. Ogni tanto ripasso dalla panettiera. Mi ha raccontato che un tempo la vecchia era la portinaia del palazzo, ma che poi il marito era morto e la figlia si era trasferita.

La finestra è ancora chiusa.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.