Un fantasma s’aggira per il Pd

Torna ad aggirarsi nel Pd un fantasma. Sempre lui, sempre l’odiato e temuto papa straniero. Ha assunto tutte le fattezze possibili, come si addice agli spettri. Per lungo tempo è somigliato a Montezemolo, poi a Profumo, per un attimo è apparso Ezio Mauro, ci sono state fugaci visioni di Saviano e Soru, poi qualcuno ha visto Mario Monti prima che si incarnasse in maniera più solida e probabile. Adesso la paura ha il nome e il volto di Corrado Passera.

Quasi sempre si tratta di personaggi dell’establishment economico e finanziario, con forti agganci editoriali, che non appena si esprimono su affari pubblici o mostrano di avere del tempo libero vanno a turbare i pensieri dei dirigenti del Pd. La stampa ci gioca parecchio, un po’ per piaggeria verso i padroni del vapore ma soprattutto perché a sfiorare i nervi scoperti dei democratici l’effetto e la reazione sono garantiti: per creare il caso basta il più improbabile dei sondaggi online.

I tipici commenti del democratico irritato sono: benvenuto chi entra in politica, però si iscriva a un partito. Vuole candidarsi? Partecipi alle primarie. Partiti personali, uomini della provvidenza? Abbiamo già dato. Non riuscirete a fare a meno del Pd. Tutte cose giuste. Solo che a sentirle ripetere in ogni intervento e a leggerle in ogni intervista danno l’impressione di una certa ansia. Di una inconfessabile insicurezza che non vorremmo che il Pd avesse, e che soprattutto non vorremmo condizionasse le sue scelte e posizioni.
Per esempio adesso è eclatante il fastidio verso il decreto liberalizzazioni di Monti. Non per quello che c’è o non c’è, ma perché se ne parla in giro troppo bene, e come di una svolta mai realizzata prima dai governi politici. Retropensiero democratico: qui si vuole delegittimarci, noi che siamo guidati dal primo (anzi unico) dei politici liberalizzatori.
Stanno ingigantendo i meriti di Monti (e Passera) oltre il dovuto. E lo fanno oggi per fregarci meglio domani.

Dal fastidio si fa presto a passare all’acidità, qualche giornale di area ci aggiunge il carico ideologico dell’avversione a qualunque cosa o persona odori di liberale, alla fine il messaggio agli elettori rischia di tornare a essere quello della freddezza e della distanza da Monti. «La sua agenda non è la nostra agenda», ha detto Fassina all’assemblea Pd, al termine di un intervento nel quale il decreto liberalizzazioni è stato a stento nominato dal responsabile economico del partito. «Noi non siamo questa cosa qui», ha ripetuto più volte Rosy Bindi, sempre riferita al governo.

Bersani (anche lui in passato turbato più volte dal papa straniero e dai suoi mandanti annidati dentro e sopra la grande stampa borghese) appare per fortuna più sicuro di sé, finalmente determinato a cavalcare la fase politica che offre al Pd evidenti vantaggi, solo a volerli cogliere. Così il segretario rivendica la primogenitura delle liberalizzazioni senz’astio, mettendosi a disposizione dei miglioramenti del pacchetto, e giustamente schiera il Pd contro le esitazioni e le piccole trappole della sbandata truppa post-berlusconiana.

Pare aver capito, Bersani, che per convincere gli italiani più della denuncia di misteriose manovre occulte conterà la credibilità del Pd sulla frontiera dell’innovazione, la sua capacità di riproporsi nella veste ora più difficile e necessaria: il partito che coglie le sofferenze e anche la diffidenza del paese, per pilotarlo però a condividere le scelte necessarie nell’interesse generale. Pochi mal di pancia, allora, niente lisciate al pelo della protesta, e nessuna sorda resistenza alle riforme di Monti.

Chiaro che adesso, con la trattativa sul mercato del lavoro partita in maniera tanto difficile, è più difficile fare da motore della stagione montiana. Si avverte nel Pd (come in tutti i partiti, del resto) la voglia di lasciar consumare l’inevitabile scontro tra governo e sindacati senza esporsi né mettersi in mezzo. Anche stavolta, però, vale ciò che valeva nelle settimane scorse sui tagli di spesa e sulle liberalizzazioni: il Pd non ha nulla da guadagnare da un fallimento di Monti e Fornero. I problemi portati a quel tavolo di trattativa col solito piglio garibaldino dal ministro sono grandi e oggettivi: non superarli in questo momento – per alcuni aspetti irripetibile – vorrebbe dire ritrovarseli addosso, aggravati, quando a governare sarà una maggioranza politica inevitabilmente più condizionata dell’attuale.

Né pare riproponibile l’argomento che s’era affacciato a sinistra all’inizio dell’era Monti: siccome ha un mandato tecnico non può fare impegnative scelte politiche. Figurarsi. Da quel momento è stata rivoluzionata la previdenza, s’è finalmente staccata Eni da Snam, s’è data una bella scrollata alle professioni, è stata rilanciata la centralità della lotta all’evasione, s’è chiusa l’epoca dei favori a Mediaset. Se non sono scelte politiche queste.

Nel Pd di Bersani c’è tutto il know how necessario a risolvere le questioni all’ordine del giorno, tra lavoro e welfare: è l’unico partito che se ne occupi e ne discuta seriamente da sempre, dai riformatori più arditi fino agli uomini di collegamento con la Cgil. Non c’è bisogno di intromettersi nella trattativa avviata, basta dare i giusti consigli e, nel frattempo, il più forte, convinto e convincente appoggio politico al governo.

L’agenda Monti, come s’è ampiamente visto, non lascia scoperto alcun tema, alcuna emergenza (tranne l’autoriforma della politica e delle istituzioni). Possiamo dire che non è l’agenda del Pd solo perché casomai è, in tutta evidenza, l’agenda del paese. Il leader del partito che, per forza e per peso del consenso, avrà garantito il successo di Monti sarà di qui a un anno l’unico indiscutibile candidato a guidare la nuova Italia che ne uscirà, che ne sta già uscendo. Passa da qui e non è popolata di fantasmi, la strada di Pier Luigi Bersani.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.