Twitter e Facebook peggiorano il mondo?

La campagna presidenziale americana sta raggiungendo le sue fasi più calde e ieri Twitter è passato alle maniere forti. Per la prima volta ha impedito a tutti i suoi utenti in tutto il mondo di linkare un articolo di stampa pubblicato da un giornale scandalistico newyorkese contenente allusioni riferite al 2015 agli affari del figlio di Joe Biden. Possibilità che quel pezzo sia spazzatura complottista? Moltissime. Certezze al riguardo? Nessuna.

Ignorando per un momento il solito effetto paradosso che si ottiene in questi casi per cui migliaia di persone che lo avrebbero tranquillamente ignorato sono corse a leggere l’articolo (un po’ la stessa cosa che accade quando Twitter segnala come false, senza cancellarle, alcune palesi bugie di Donald Trump sul coronavirus), quale sembra essere il punto della questione? Il punto sembra essere che Twitter si carica dei panni del censore, perde ogni aspirazione di terzietà verso i fatti del mondo e, soprattutto, scende in campo nella disputa presidenziale con grande rumore di cristalli rotti. Qualcosa di simile è accaduto anche a Facebook che ha cercato di limitare la visibilità sulla sua piattaforme per il medesimo articolo.

L’aspetto paradossale della vicenda è che Twitter e Facebook, da tempo in grande affanno sulle faccende che riguardano fake news e altre forme di disinformazione a casa loro, sono cresciute e prosperate grazie alla famosa Section 230 del CDA del 1996 che prevede l’assenza di responsabilità diretta delle piattaforme sui contenuti postati dagli utenti, così come è paradossale che entrambi i contendenti alle prossime presidenziali americane abbiano dichiarato in più occasione di voler modificare quel comma. Trump lo ha fatto anche recentemente nei suoi soliti caratteri in maiuscolo, Biden lo ha dichiarato più volte in interviste durante la campagna elettorale.

La macchina dei social network sembra insomma essere inceppata e lo è per una ragione principale: perché le piattaforme sociali sono diventate troppo grandi e sono troppo poche. Internet da sempre sopporta egregiamente, costruisce antidoti e scappatoie, bilancia, quasi fosse un ecosistema autoregolato, bugie e disinformazione dentro piccole comunità, ma implode e si trasforma in un potente strumento di controllo in mano ai peggiori quando si ipertrofizza e si trasforma in un oligopolio.

In questo gigantismo, che da tempo sottolinea da un lato la natura maligna della propaganda e dall’altro la bulimia forsennata delle aziende tecnologhe, Twitter non ha a quel punto altra scelta che trasformarsi in un poco credibile gendarme del mondo. E lo fa dirigendo la propria attenzione non sulle tonnellate di bugie che circolano quotidianamente su Internet, migliaia di link a notizie palesemente false che potrebbero essere rese non linkabili con forse maggior tranquillità, ma su un singolo articolo che, in linea del tutto teorica, potrebbe anche rivelarsi domani un piccolo lurido scoop giornalistico di un tabloid di quart’ordine.

Invece che bannare Trump dalla piattaforma, quando con un’impudenza che ormai ha perduto ogni freno il Presidente degli Stati Uniti spiega ai suoi milioni di follower che muoiono più persone di Influenza stagionale che non di Covid, Twitter ha scelto di dedicarsi al processo alle intenzioni altrui.

E nonostante Jack Dorsey abbia scritto che il loro è stato un grave errore di comunicazione (anche i politici italiani usano spesso la medesima formula quando perdono le elezioni) i nodi sembrano essere infine venuti al pettine.

Il fatto è che siete troppo grandi, siete pericolosi per la comunità: i vostri stupidi strumenti per aumentare il vostro dominio (Twitter per la campagna elettorale ha sospeso i Trending Topics) sono da tempo nelle mani dei peggiori. Qualcosa dovrà insomma essere fatto e probabilmente non potrete farlo voi. Nel frattempo, anche per colpa vostra, la libertà di tutti è in grave pericolo.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020