Tutti lo vogliono

E venne il giorno che LeBron James svelò al mondo la sua prossima squadra.
Mica con un comunicato. Mica con un Tweet. E neppure con una conferenza stampa.
Con un intero special televisivo di un’ora, organizzato insieme a quelli di ESPN.
“The Decision”, lo hanno chiamato.
Se vi state domandando che tipo di interesse in fondo possa avere, sappiate che va in prime-time televisivo americano ed è visibile pure qui da noi (per gli abbonati SKY sul canale 214, ESPN America, alle 3 di notte).
Di questo momento, di queste estate (l’estate del 2010) nel mondo NBA se ne parla da tanto.
E tanto non vuol dire giorni. O mesi. Vuol dire anni.
Da quando è suonata la sirena sull’ultima partita della stagione (gara-7 a Los Angeles, 17 giugno), però, se ne parla ancora di più.
Senza saperne di più.
Se non resta a Cleveland, pronti ad allettarlo c’erano (e ci sono, in rigoroso ordine alfabetico) Chicago, Los Angeles (sponda Clippers), Miami, New Jersey, New York.
È stato detto tutto e il contrario di tutto, negli ultimi 20 giorni, ma ancora non si sa per certo che squadra abbia scelto il buon James per continuare la sua carriera.
Certo, nelle ultime ora l’ago della bilancia un po’ si è spostato – facciamo più di un po’ Perché Chris Bosh (da Toronto) ha raggiunto Dwyane Wade a Miami, e ora tutti a dire che LeBron James è pronto a fare altrettanto, e a creare i nuovi “Big Three” NBA.

(Sembra fatta, mentre scriviamo, mentre sui siti di Cleveland spuntano già le gallery retrospettive tipo “La Carriera di LeBron James in maglia Cavs”).

Sarà quel che sarà. Fra poche ore sapremo, sapranno.
Interessa di più altro, qui.
Interessa il fenomeno mediatico che si è creato attorno all’evento.
Due partiti: chi osserva divertito (chi scrive sta con questi) e chi osserva imbestialito, quasi offeso.
Le accuse dei secondi: LeBron James non ha ancora vinto niente (zeru tituli NBA all’attivo) ma si sente così importante da organizzare questa carnevalata televisiva. Ah, i bei tempi… Quando le immagini erano in bianco&nero, quando dei “veri” campioni non si sapeva quasi nulla, quando un Michael Jordan tornava nella NBA dopo la parentesi nel baseball con un fax spedito alla NBA e tre semplici parole: “I am back”.
Palle!
Scusate, ma palle! Si sta meglio oggi, subissati di informazioni, con Internet, i rumor online, Twitter e (massì) pure gli speciali televisivi (e a colori! Tiè!).
Perché oggi tutto è globale (anche il basket, sì, “the Global Game” come ama chiamarlo il commissioner David Stern) e chi guarda indietro è perduto. Certo, può sembrare un po’ megalomane, questo James, ma intanto il signore – senza ancora aver vinto nulla – ha contratti con Nike, con McDonald’s, con Coca-Cola e via dicendo. È famoso a Cleveland come a Shangai (o a Cinisello Balsamo). È 28esimo nella lista delle celebrità più potenti al mondo. Produce come una multinazionale (43 milioni di dollari nel solo 2010), e come una multinazionale vende, e si vende. Chiacchiere? Non proprio. Uno studio fatto dal Prof. Jerry Hausman (cattedra all’MIT) e pubblicato sul quotidiano di Cleveland, il Plain Dealer, ha messo nero su bianco: senza James – e il suo indotto – in una singola stagione la città perde 48 milioni di dollari. Quarantotto!
Insomma: il personaggio, come dicono di là dalla pozza, è “larger than life”.
Come succede con ogni celebrità, casomai, a perdere il senso della misura ed esagerare ci pensano più tutti quelli attorno a lui, tifosi & media in primis (che così facendo ne consacrano la dimensione “pop”), che il diretto interessato.
Non lo guardasse nessuno, questo benedetto special TV, avrebbero ragione i critici.
Ma stanotte, in America, avrà un seguito terrificante.
E io ho già puntato la sveglia per questa notte, alle 03.00.
Voi?

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).