Tutti con la kippah

Una delle caratteristiche della nostra epoca è non vedere i pericoli quando stanno arrivando. La civiltà ha indebolito il naturale istinto di stare in guardia e prevedere. E questo è purtroppo uno degli aspetti che Sigmund Freud non prese bene in considerazione nel suo Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio nella civiltà, 1929). Siamo sempre meno capaci di intuire ciò che sta cambiando in peggio e metterà in discussione la nostra incolumità.

Il regista svedese Ingmar Bergam, per riflettere sulle origini del nazismo, raccontò la storia, ambientata a Berlino nel 1923, di un trapezista ebreo americano il cui fratello si spara lasciando una lettera con scritto: “Un flagello sta per abbattersi su di noi”. Il film si intitolava significativamente L’uovo del serpente (1977). L’uovo del serpente è trasparente e permette di intuire cosa sia quella virgoletta, apparentemente innocua, che sta maturando al suo interno. Immaginando il rettile si potrebbe impedire che esca fuori e faccia del male.

Questo era il senso che Primo Levi dava al suo doloroso rinvangare il passato e alla sua lucida testimonianza. Lo ribadì con forza nel suo “testamento”, I sommersi e i salvati (1986): “Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale e inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura muove oggi al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito e osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire” (p.164). Raccontando e comprendendo che cosa accadde si aiutano i più giovani a capire in anticipo il Male in arrivo. Se si sa ciò che è avvenuto, e come iniziò, forse non si ripeterà.

L’altro giorno, a Marsiglia, un quindicenno turco di origini curde ha aggredito con un machete un insegnate che portava la kippah. “Ho agito per Allah e per lo stato islamico”, ha dichiarato l’attentatore, fermato dalla polizia. Dopo questo fatto, per comprensibili motivi (da anni in Francia si susseuogono gli attacchi agli ebrei), il Concistoro israelitico di Marsiglia ha invitato a non indossare la kippah, “in attesa di giorni migliori”. Non tutti però hanno tratto queste conseguenze. Giustamente, orgogliosamente e coraggiosamente il gran rabbino di Francia Haim Korsia, assieme a molti altri, ha detto: “Continueremo a portarla”.

La kippah è, com’è noto, il copricapo usato obbligatoriamente dagli ebrei osservanti maschi nei luoghi di culto. I più religiosi la indossano anche durante la vita quotidiana. Ci si copre il capo in segno di rispetto verso Dio, e a tale scopo un qualsiasi copricapo è adatto. Il Talmud dice: “Copriti la testa in modo che il timore del cielo sia su di te” (Shabbat 156b). Ci sono anche opinioni diverse. Ad esempio, il rabbino lituano Elijah ben Shlomo Zalman, meglio conosciuto come il Gaon di Vilna (1720-1797), grande oppositoire del Chassidismo, sostenne che uno può recitare una berakhah (benedizione) senza kippah, poiché portare la kippah è solo un “attributo esemplare”.

Ma non è questa oggi la questione. La kippah, per chi ci crede, è un segno del proprio rispetto per Dio. Diventa inevitabilmente un segno di riconoscimento che volontariamente un uomo indossa. In un tragico passato, non tanto lontano, ci sono stati dei segni che sono stati imposti. Come la Stella di David, spesso di colore giallo, che venne utilizzata dai nazisti come metodo di identificazione degli ebrei, e venne chiamata la Stella Ebrea. L’obbligo di portare la Stella di Davide, con la parola “Jude” scritta sopra, venne esteso a tutti gli ebrei al di sopra dei sei anni nelle zone occupate dalla Germania dal 6 settembre 1941. Così venne esteso ad altri paesi l’uso introdotto già nel 1939 nella Polonia occupata dove gli ebrei vennero costretti a portare una fascia sul braccio con una Stella di Davide sopra, come anche una pezza davanti e dietro i propri indumenti. Si costrinsero in seguito gli internati nei campi di concentramento a portare simili distintivi per farsi riconoscere.

Il pedagogo e scrittore ebreo polacco Janusz Korczack (1878-1942), quando lo rinchiusero, assieme agli orfani della sua scuola, nel Ghetto di Varsavia, si rifiutò di portare quella stella che “lo degradava a un animale marchiato”. Lui era un grande uomo e il suo gesto non mette assolutamente in cattiva luce gli altri che, per umanissima paura, ubbidirono e accettarono di portarla. Rifiutarsi di portare la Stella non era, in quella situazione, assolutamente possibile. Ma immaginiamo cosa sarebbe successo se anche molti non ebrei se la fossero messa addosso…
Se oggi si riconoscono e colpiscono gli ebrei che portano la kippah, la soluzione non è toglierla. Si potrebbe invece, almeno in alcuni giorni, portarla tutti.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).