Tremonti val bene un festival

Dopo sedici anni il Festival dell’economia di Trento cambia gestione. A organizzarlo non saranno più i suoi fondatori storici, l’economista Tito Boeri e l’editore Giuseppe Laterza, bensì Giulio Tremonti e Il Sole 24 Ore con i loro rispettivi collaboratori.
Secondo me un avvicendamento era necessario già da tempo. Sedici anni sono troppi, a mio avviso, per mantenere la “freschezza” indispensabile per proporre ogni anno temi e relatori interessanti. Hanno profuso, naturalmente, il massimo impegno, hanno invitato un sacco di premi Nobel, messo in piedi tavole rotonde di prim’ordine, ma chiunque, dopo più di tre lustri, accuserebbe perlomeno una certa stanchezza intellettuale. Succede ai direttori di giornali, ai rettori di atenei, non vedo perché i responsabili di un festival come Boeri e Laterza dovrebbero fare eccezione. Anzi avrebbero dovuto essere loro per primi, di spontanea volontà, a cedere il passo e favorire un ricambio. Magari proprio per rimettersi in discussione decidendo di trasferire in un’altra località (come hanno già annunciato di voler fare) la rassegna. Cambiare aria fa sempre bene alla circolazione delle idee.

La questione, ripeto, secondo me è (dovrebbe essere) di squisita routine. Invece subito è diventato un caso politico perché a sfrattare gli storici fondatori è stata la giunta leghista della Provincia di Trento.
Può essere che ciò abbia inciso. Anzi sicuramente sarà stato così. Ma a parte il fatto che, possa piacere o meno, ne ha pienamente diritto, quello che trovo francamente un po’ supponente da parte dei due è questo voler passare come quelli che sanno meglio di chiunque altro come si organizza un festival dell’economia mentre dopo di loro il diluvio. Ha dichiarato Boeri una settimana fa a Repubblica: «Questa di Trento è stata una scelta politica travestita in modo goffo…questo è il festival degli scienziati, dove il ceto politico è chiamato a misurarsi in un confronto vero – non televisivo – con il pensiero critico. Evidentemente questa nostra impostazione è risultata sgradita». Gli ha fatto eco Laterza lo stesso giorno sullo stesso giornale: «Non conosco i nomi del comitato scientifico proposto dal Sole 24 Ore. Ma posso pensare che garantiscano una qualità superiore rispetto alle voci di Tony Atkinson e Zygmunt Bauman?».

Di questa sorta di salita in cattedra penso se ne potesse fare volentieri a meno, trovando le loro argomentazioni piuttosto deboli. Così come trovo altrettanto labili le motivazioni cui è ricorso ieri sul quotidiano Domani il suo direttore Stefano Feltri per sottolineare l’inadeguatezza, a suo avviso, di Giulio Tremonti e Domenico Siniscalco quali nuovi responsabili scientifici dell’evento: «Neppure la pletora di affiliazioni e onorificenze elencate da Tremonti possono cancellare il fatto che l’ex ministro è uno stimato avvocato e un autore di libri di successo, ma non certo un economista…Siniscalco è laureato in Giurisprudenza, un dottorato in economia ce l’ha, ma il grosso della sua carriera è stato nel settore privato, come banchiere di Morgan Stanley, non è certo un accademico».
A parte il fatto che Siniscalco un accademico lo è (professore ordinario di economia politica all’università di Torino), a parte il fatto che essere laureato in giurisprudenza non significa affatto che non possa essere un bravo economista altrimenti dovremmo dire che Romano Prodi non è un economista (laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano), che Beniamino Andreatta non era un economista (laurea in giurisprudenza a Padova), che Carlo Azeglio Ciampi non era un economista (laurea in lettere e poi in Giurisprudenza a Pisa) tanto per citare tre personaggi che di economia ne capiscono e capivano alla grande.
Ma a parte le inesattezze il punto è proprio questo: l’economia, se vuole tornare al centro del dibattito pubblico, deve uscire proprio dall’Accademia, dalla torre d’avorio dove viene costantemente confinata da gran parte degli economisti nel tentativo disperato di farla apparire come una scienza (una scienza inesistente piena di idiozie la canzonava anni fa l’economista Sergio Ricossa).

L’economia non è una scienza bensì è una disciplina che più si contamina con altre discipline (storia, filosofia, diritto, letteratura, antropologia, eccetera) più ha qualche possibilità di comprendere la realtà. E un simile processo di comprensione passa, oggi più che mai, anche attraverso provocazioni culturali.
Giorgio La Malfa, probabilmente il massimo conoscitore italiano di tutta l’opera di John Maynard Keynes, ha raccontato qualche mese fa, in occasione degli ottantacinque anni dalla pubblicazione della “Teoria generale” del grande economista britannico, che quando Roy Harrod lesse le bozze e gli suggerì di attenuare le polemiche contro gli economisti classici Keynes rispose che semmai avrebbe dovuto alzare ancora di più i toni: «Voglio sollevare un polverone, perché solo dalla controversia che nascerà riuscirò a far comprendere quello che dico».
Ecco, io credo che Tremonti sia proprio la persona giusta per “sollevare polveroni”, per sferzare una certa economia paludata (all’indomani dello scoppio della crisi finanziaria americana nel 2008, propose agli economisti di stare zitti per almeno due anni visti gli errori clamorosi di previsione commessi e un discreto numero di economisti italiani, pur “piccati”, scrissero a Repubblica ammettendo a denti stretti di aver sbagliato), per far circolare idee innovative (ricordo che se da quasi vent’anni esiste il 5 per mille, linfa finanziaria vitale per le organizzazioni non profit, lo si deve a un’invenzione di Tremonti ministro delle finanze), rimescolare i saperi (per quanto sia stato preso in giro nei giorni scorsi perché su La Stampa ha ricordato che Tony Blair lo definì il ministro più colto, Tremonti è davvero colto e, a differenza di quanto ancora oggi qualcuno continua a sostenere senza un briciolo di prova, non ha mai proferito la frase che «con la cultura non si mangia»).
Di Tremonti, naturalmente, ognuno può pensare quello che meglio crede. Personalmente ritengo che tra gli errori fatti come ministro dell’Economia e delle Finanze dei diversi “Governi Berlusconi” di cui ha fatto parte quello più grave sia stato non aver condotto un’efficace lotta all’evasione fiscale. Con le sue competenze in diritto tributario, innegabili (il più bravo di tutti) avrebbe sicuramente potuto dare molto più filo da torcere agli evasori. Ma sull’intelligenza e lungimiranza del personaggio non si discute e circa il giudizio sugli economisti la penso similmente a lui. Non ho dubbi quindi che al prossimo festival dell’economia ne vedremo delle belle.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com